We care about Aphex Twin

In attesa di ascoltare dal vivo il nuovo disco di Aphex Twin a Torino per Club To Club Festival, ripercorriamo genesi e lascito di “…I care because you do”: un disco in un certo senso sia fondamentale che “minore” nella carriera di un producer sfuggente e incatalogabile; un’opera che viaggiando su binari paralleli a Nevermind dei Nirvana ha segnato nel profondo una generazione.


_di Ramon Rodriguez

Nel 2018, possiamo parlare di elettronica in due sensi: discutendo di dischi modernissimi e manieristici, che riprendono gli stili in voga fra una decade e l’altra, oppure di dischi impossibilmente complessi ed artistici; in un panorama variegatissimo, dove le novità passano come le mode, rimangono pochi esempi realmente memorabili. Nel caso della musica elettronica, inoltre, dobbiamo chiederci secondo quali canoni giudicare una produzione come memorabile; quanto è orecchiabile? Quanto è alla moda il produttore? Quanti remix ha avuto?

In ogni caso, pochi sono i dischi elettronici che hanno “segnato una generazione”, specie se consideriamo come con “disco generazionale”, in genere, si intenda qualcosa che riesce a cristallizzare l’immagine di una generazione (di giovani), il suo aspetto, i suoi ideali, il suo stile, non di rado nella chiave della “ribellione” adolescenziale che porta ogni decade a rompere con la precedente. Se cercassimo il disco di musica elettronica che “ha segnato una generazione” troveremmo la risposta in uno dei dischi “secondari” di Aphex Twin, “… I care because you do”.

Aphex Twin, monicker principale di Richard David James, è un personaggio incredibilmente noto nella scena musicale elettronica mondiale; combinando tratti da recluso e schivo compositore con punte di bizzarria fino all’autismo, ha creato intorno a sè, consapevolmente o meno, una serie di leggende metropolitane che lo dipingono come sempre più strano; di lui si è detto che possedesse un carro armato (in realtà un blindato), vivesse in una banca, avesse accettato di suonare gratis a feste private snobbando festival importanti o si fosse stupito di essere “famoso” quando qualcuno gli chiese di intervistarlo per una tesi di laurea. Indubbiamente, è un genio del marketing e dell’hype, creando, proprio con le sue stranezze e le sue iniziative (come far apparire materiale promozionale dei suoi album in tre città nel mondo – fra cui Torino – oppure in cielo grazie a dirigibili ad hoc) una grande aura di interesse, che ha portato rapidamente il grande pubblico ad apprezzarlo e ad un vero e proprio cult-following.

Musicalmente, Aphex Twin ha una produzione sterminata, divisa fra numerosi alias e riportata in enormi quantità di dischi, compilation, ep, singoli, tutti firmati con un tratto molto ben riconoscibile, abrasivo, acido, eppure in qual modo ambient, delicato, perfino sinistro – e parliamo solo dei suoni, tacendo delle immagini che accompagnano i suoi lavori fra copertine e video (c’è spesso lo zampino di Chris Cunningham dietro, non esattamente uno studente di videomaking). Questa base sonora ha caratterizzato le primissime fasi della produzione di James, entro i primi anni ’90; si vocifera, effettivamente, che avesse iniziato con l’arte del circuit bending – una tecnica di modifica artigianale degli strumenti elettronici per ottenere suoni non previsti dai software degli strumenti stessi – sin da piccolissimo. Ma James è risaputamente un bugiardo, abbiamo detto, ed è difficile credergli. Per molto tempo, il nostro ha prodotto musica prevalentemente in analogico, utilizzando cioè strumenti fisici e non campionatori computerizzati o software; un suo tratto stilistico che fino alla metà degli anni 90 è sopravvissuto.

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C’è poi una buona venatura di drum ‘n’ bass all’inglese, che possiamo qui intendere come una complicata trama di batteria e percussioni, che è, infine, l’ultimo tratto stilistico da segnalare; ma in effetti risulta difficile categorizzare i suoi lavori, che oscillano fra le sonorità ambient malate del leggendario Selected Ambient Works fino a punti completamente diversi come Drunqz o, appunto, I Care Because you do. Discostandosi infatti dalle sonorità precedenti, più acide ma anche più ambient, in quest’album la d’n’b ha più peso; i brani, più ritmati, compongono una struttura complessivamente molto dura, fredda, distante nella sonorità. Prima della recensione tecnica traccia per traccia, però, sarebbe interessante approfondire il perché si può considerare ICBYD come un disco generazionale per gli adolescenti degli anni 90. Nel disco, infatti, si percepisce un’atmosfera particolarissima.

Parlando della generazione anni novanta, la critica musicale concorda nel definire i Nirvana come uno dei gruppi di riferimento, accostando la maggior parte dei giovani dell’epoca al grunge. L’esplosione di questo nuovo genere ebbe effettivamente un enorme impatto; se i ragazzini smisero di suonare gli Iron Maiden dopo la scuola, preferendo le canzoni tristi e più svogliate di Cobain edesprimendo il nuovo disagio della loro epoca, come effetto si ottenne una fase di stanca nel rock più pesante, aprendo le porte a una nuova scena musicale, beat come non se ne vedeva da tempo.


Ma se “Nevermind” è un disco esemplificativo, allora anche ICBYD lo è. Già lo stesso titolo indica questo tipo di umore: “me ne frega perché frega a te”, altrimenti niente, altrimenti starei in cameretta a suonare, a produrre la mia musica. Musica che suona come un esercizio stilistico ben fatto, un disco curato in modo da sembrare rigoroso, difficile, duro, il compito a casa dello studente che dovrà proporlo; è più immaturo del predecessore, dove i suoni sono finissimi e curati – sebbene con una qualità di registrazione modesta, probabilmente per un passaggio forzato da cassetta a cd. Ogni minuto di ICBYD trasuda letteralmente “potenzialità” e “non detto”, ascoltandolo la sensazione di un disco “incompleto” è fortissima; meglio ancora, abbiamo l’idea che chi lo ha composto abbia lavorato solo superficialmente, senza approfondire qualcosa che poteva essere incredibile, non per incapacità, ma appositamente. Un’imitazione della svogliatezza, della mancanza di voglia di fare dei ragazzini del periodo, a cavallo fra due generazioni e due secoli, completata con la mezza presa in giro di campionare spezzoni di porno o inserendo il titolo dell’album in bassa frequenza fra un brano e l’altro.

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Notiamo infatti una buona autoreferenzialità, una vanità, quasi, con cui James riprende continuamente il suo nome, cambiandolo e anagrammandolo nei titoli dei testi, e soprattutto con cui schiaffa in copertina un suo inquietante ritratto, avviando il leitmotiv di uso distorto della sua faccia (riferimento all’appariscenza continua di dj e producer, sebbene di segno completamente opposto, con il brutto, il disgraziato, l’inquietante in vece del bello e famoso – sarà poi con Windowlicker, anni dopo, che la cosa sarà portata all’apice).

Ma se l’estetica e il mood complessivo riportano a un’adolescenza da cameretta, di chi c’è stato chiuso dentro troppo a lungo –  antesignano delle ondate di elettronica e di Soundcloud rap di vent’anni più tardi – la struttura del disco, per quanto “falsamente modesta”, non ha niente da invidiare agli altri, più incensati, dischi del nostro.

Acrid Avid Jam Shred (primo anagramma di Richard David James), apertura dell’album, parte con una micidiale drum machine a variazione quasi zero, con un vago fischio in sottofondo appena mitigato dagli archi; The Waxen Pith (anagramma di Aphex Twin, e a questo punto non li evidenzio più perché ormai l’antifona è chiara) finge di essere ambient per dare un minimo di respiro all’ascoltatore, pur tenendo ancora su l’asticella dell’inquietudine. Wax The Nip riprende un beat malsano di d’n’b rivista, Icct Hedral azzera il ritmo e diventa un incedere pesantissimo. Qui troviamo finalmente Ventolin, singolo capofila del disco; Ventolin è un brano che potrebbe essere oggetto di un articolo a parte: ha il nome di un farmaco da inalare per l’asma (guarda che coincidenza, altro stereotipo del nerd), un video fra l’angosciante e il totalmente privo di senso (ascensori, donne che precipitano, ciminiere, e altri inalatori), e un mortale fischio di accompagnamento, un sibilo fortissimo per tutto – tutto – il brano. C’è chi ipotizza fosse un riferimento all’acufene (il “fischio nelle orecchie”) che può causare il Ventolin, sicuramente è una bastonata sonora che rende realmente difficile proseguire il brano, con un beat devastato dalle frequenze (l’oscillazione fra una tonalità e l’altra, quel “weeep-wooop” che si sente e che, vent’anni dopo, sarebbe diventata il cardine del bassdrop usato nella dubstep, è dato dalla variazione della frequenza sonora, ovvero della lunghezza d’onda del suono stesso) e una scarica di suoni rovinati apposta.  

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Il disco si tranquillizza con Come On You Slags! (sì, quella col campionamento porno tratto da Fantasia), con una base leggera e una melodia pesante (praticamente il rovescio di quanto sentito finora), poi con Start As You Mean to Go On, dal beat secco e nuovamente pesante. E’ Wet Tip Hen Ax che conclude questo primo blocco del disco, più ritmato – nel bene e nel male – verso la conclusione più ambient, dai tempi più rilassati. Iniziamo infatti con Mookid, dal suono quasi infantile – fastidioso quasi, seguita da Alberto Balsam, con riferimento a una linea di prodotti per capelli, beat vagamente simile a dei Massive Attack fuori ordinanza, qualche punto breakbeat e un rumore ripetuto che potrebbe essere realmente una sedia trascinata sul pavimento – non lo escluderei. A completare l’opera, una crisi isterica su disco, Cow Cud is a Twin, e intendiamo letteralmente: fra i campionamenti predefiniti nel sistema Mac, la voce “Hysterical” è il primo suono del brano, quindi una gloriosa composizione finale di archi, Next Heap With, che finisce un’esperienza che definire onirica sarebbe poco.

L’influenza di questo disco; culturale o musicale che sia, è indubbia. Ed è probabilmente passata in sordina. L’impressione che ne rimane, ascoltandolo o riflettendo sul momento che lo ha visto nascere, è quella di una composizione che solo apparentemente ci passa sotto le dita, mentre ci ritroveremo a fischiettare qualche cosa in un secondo momento, o a ripensare a come anche noi ci siamo sentiti veramente svogliati a fare le cose, da ragazzini, perché non ce ne fregava veramente niente. Ma adesso dovrebbe e potrebbe fregarcene qualcosa; fra pochi mesi potremmo avere l’occasione di vedere dal vivo il nostro produttore di delirio, comodamente nelle sale del Club to Club festival, a Torino, dall’1 al 4 novembre. Il festival, ormai alla diciottesima edizione, porta da tempo sui suoi palchi artisti di culto, fra cui l’esclusiva italiana di Aphex Twin. Non è da escludere che a questo live facesse riferimento il logo comparso a Torino tempo fa (guardalo qui), anticipazione del concerto che si preannuncia quantomeno imperdibile, nonché del recente EP Collapse, anticipato anche questa volta da un singolo micidiale, T69 – già noto per il video bloccato da per tutto per evitare l’epilessia. Ma questo è il delirio dell’Aphex Twin del 2018; per meglio inquadrarlo, studiamo il delirio del James “adolescente” del 1993, e ascoltiamoci ICBY.

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