La creazione di Klaus-Jürgen Wrede, a diciott’anni dall’uscita, si conferma il più grande classico dei giochi da tavolo per tutti del Terzo Millennio. Cercare di convincere i tuoi amici che passare tre quarti d’ora a sfidarsi in abilità creando una mappa sia più divertente di trascorrere quattro ore a far decidere dai dadi le speculazioni edilizie del Monopoly può essere una crociata persa in partenza, ma il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare.
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_di Giovanni Bersani
Metti che tu sia tornato ieri dalle tue brevissime ferie, che stamattina ci fosse già un traffico maledetto, che per il prossimo periodo di riposo ci siano da strappare tre fogli dal calendario e che l’umore sia quello di Clint Eastwood in Gran Torino. Metti che quello che ti interessava del catalogo Netflix tu lo abbia già guardato tutto tranne il centesimo rewatch coi lacrimoni di Se mi lasci ti cancello e che tu non abbia voglia di disturbare i vicini singhiozzando. Metti che qualcuno degli invitati alla serata se ne esca con la frase fatidica, odiata, temuta, troppo a lungo dimenticata nell’angolo dei ricordi in cui mettiamo i maglioni di lana che da bambini ci pungevano e tutte le partite di calcio nell’intervallo in cui ci sceglievano per ultimi: «Raga, ma un Monopoly? Un Risiko?»
Monopoly ha sfasciato più famiglie e amicizie del muro di Berlino e, soprattutto, ha tarpato le ali all’industria del gioco da tavolo per qualcosa che si avvicina al secolo.
Almeno tre ore a partita, tutto o quasi lasciato al caso, una meccanica che incoraggia i giocatori a mettere il danno degli altri davanti al proprio vantaggio e quel maledetto circolo vizioso che se cominci a vincere diventi sempre più forte e se cominci a perdere sei carne per gabbiani.
Risiko, d’altra parte, è un gioco per nessuno, perché nessuno ha voglia di essere eliminato dopo mezz’ora per poi guardare gli altri che si contendono la Kamchatka per il resto della serata.
Metti allora che quel tuo amico che gira per blog, paga Spotify e va a teatro e al cinema d’essai faccia un profondo respiro e tiri fuori dalla borsa una scatola. «Che ne dite se proviamo Carcassonne?»
2-5 giocatori (fino a 8 con le espansioni), una quarantina di minuti a partita, cinque minuti d’orologio per la spiegazione, scarsa interazione, alea medio-bassa, trenta euro per l’edizione italiana in continua ristampa, nessuna eliminazione. Classicone di quella categoria che gli sfigatoni come noi chiamano german perché la bassa casualità e i componenti essenziali, con la repulsione per dadi e miniature e un certo fetish per i cubetti e i meeple in legno, profumano già di bratwurst e taniche di birraccia bionda.
La consuetudine degli yankee a dinsinguere il mondo tra noi e loro fa talvolta chiamare questi giochi genericamente eurogame; noi sfigatoni di cui sopra chiamiamo alea la componente di casualità di un gioco e meeple gli omini di legno tanto cari alla scuola teutonica dei boardgame. Fine della terminologia geek per oggi.
Carcassonne è fondamentalmente una via di mezzo tra un domino e un puzzle. A partire da una tessera iniziale, ogni giocatore ne pesca una nuova e la deve attaccare a una di quelle già esistenti, facendo combaciare gli elementi di paesaggio: strade, prati, cittadine, monasteri.
A fine partita il risultato è una mappa di un generico paesaggio medioevale, che da vedere è anche molto gradevole, ispirato alla magica cittadina francese da cui il gioco prende nome. Il giocatore può piazzare un meeple su un elemento di paesaggio e, una volta finita la strada, chiuso il prato, circondato di mura il borgo o racchiusa tra i campi l’abbazia, totalizzerà punti proporzionati alla grandezza dell’elemento appena completato. I bordi della tessera devono combaciare con quelli di quelle già presenti. Non si può piazzare un meeple su un elemento di paesaggio già di proprietà di un qualunque giocatore. Non c’è interazione diretta. Non si distruggono i meeple di nessuno. Nessuno può costringerti a ipotecare l’albergo ai Bastioni Gran Sasso.
Alla fine della partita vince solo chi ha giocato meglio. Non viene eliminato nessuno e ciascuno può provare a rendere la mappa un luogo migliore fino alla fine del gioco, magari completando quella città da 16 punti in cui nessuno avrebbe creduto. Non si può abbinare l’abito nero alle scarpe marroni. Fine delle regole.
Metti che a fine serata nessuno abbia litigato con nessun altro, che in un’ora e mezza abbiate fatto due partite, che tutti le abbiano giocate entrambe per tutta la loro durata e che sia anche avanzato il tempo per un Amaro del Capo. Due. Ok cinque. Metti che quando vi salutate quello che aveva proposto Monopoly abbia scoperto due cose: che gioco da tavolo non è sinonimo di quattro ore di bile e frustrazione e che quel passatempo che credeva legato agli untoni sovrappeso con le maglie dei Metallica può essere il miglior sollievo di un lunedì sera a caso.