Un festival che rappresenta un’esperienza in grado di fidelizzare il fruitore fin dal primo incontro. Un colpo di fulmine che diventa una storia d’amore. Ecco i nostri highlights dal paradiso musicale di Barcellona.
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_di Roberta D’Orazio
Quello con il Primavera Sound non è l’incontro di una notte, passione fugace che illanguidisce tra i confini del ricordo. Quella con il Primavera Sound è una lunga storia d’amore. Con tutto ciò che questo comporta: momenti di felicità, sconforto, stanchezza, attese, appartenenza e complicità, voglia di buttare tutto all’aria per poi tornare sui propri passi.
Perché la caratteristica che più colpisce del festival orgogliosamente nato a Barcellona è la capacità di generare fedeltà.
Il Primavera Sound è infatti innanzi tutto un’esperienza, individuale e collettiva. Nutrita dalle differenze, fondata sull’identità. Ed è questo il filo conduttore, il nucleo archetipico che crea nel fruitore, alla fine di ogni edizione, un forte sentimento di nostalgia – nel senso letterale greco, la malattia del ritorno. Una dinamica che trova terreno fertile anche nella voglia di appartenere e condividere. Attivissima in tal senso è la comunità italiana con l’apposita pagina su Facebook, utilizzata durante tutto l’arco dell’anno per commentare la line up, nei giorni del festival per scambiarsi opinioni e informazioni utili in tempo reale e commemorare l’evento nei mesi successivi.
Quest’anno il programma era stato accolto dagli affezionati con numerose polemiche. Anticipata da un video che mostrava le reazioni entusiaste di pochi fortunati che hanno ricevuto in anteprima l’annuncio, la line up è stata definita indegna, scarna, inadeguata alla portata del festival. Eppure oggi, nei forum, nei bar, molti parlano di quella appena conclusa come la migliore edizione del festival. Da cosa deriva questo cambio di prospettiva?
Di certo, in larga scala, dalla presenza di artisti che hanno trasformato i propri live in esperienze godibili da più punti di vista in quanto supportati da idee forti. Alcuni esempi, su tutti, scelti tra quelli che si distinguono per la capacità di rappresentare lo spirito del Primavera Sound che è, più che un festival, un progetto in cui convivono coerenza e innovazione.
Nick Cave
Quando si dice che Nick Cave è un dio e non un uomo, come ho letto infinite volte tra i commenti alla sua esibizione e come io stessa fermamente credo, non si sta parlando di idolatria, ma della genesi e dell’ascesa di un mito.
Qualcosa di rassicurante, che mostra come sia possibile non rinnegare artisticamente se stessi e saper crescere al tempo stesso senza cadere nella becera imitazione di sé, arrivando all’apice della propria carriera ad un’età in cui altri rappresentavano ormai delle stelle cadenti.
Il Re Inchiostro mille volte nato, morto e risorto dalle proprie ceneri è una divinità perché la divinità è una rappresentazione dell’umano, e coincidendo con l’umano mostra com’è possibile sbagliare, perdersi, e ritrovarsi ancora: “Look at me, now!” canta in una versione di Jubelee Street incredibilmente energica.
Quando vedo Nick Cave camminare sulle acque di un pubblico devoto, cercare continuamente il contatto fisico con i presenti, io sento che la lingua italiana non possiede un termine adatto a descrivere tale attitudine, e faccio ricorso al castigliano: entregado.
Letteralmente, consegnato. Capace di darsi e donarsi. Il suo corpo si offre alle prime file, non solo sul finale, quando, sulle note di Stagger Lee, Cave fa salire i presenti sul palco, ballando e ammiccando e persino scherzando con loro, ma durante l’intera durata del concerto. Qualcosa che si può sentire, nel senso empirico inglese: to feel.
Co-protagonista, sul palco, un’ottima formazione dei Bad Seeds che tiene fede ad una scaletta che bilancia grandi successi del passato sapientamente reinterpretati e prospettive presenti. Immensa tra tutte la figura di un sempre più carismatico Warren Ellis. Tra i brani, un paio di chicche inaspettate, quali Loverman, suonata per l’ultima volta dal vivo dal 1999, e Come into my sleep, assente dai palchi dal 2005.
Kyle Dixon & Michael Stein performing the music of Stranger Things
Il tempo di entrare nell’Auditori e di notare la nave spaziale di consolle e tastiere montata sul palco, che la luce ci abbandona. Kyle Dixon e Michael Stein, entrambi membri dei SURVIVE, entrano al buio. La musica li precede: loro restano visibili ad occhio nudo fino a quando i laser rossi, blu e viola distribuiti sopra, in mezzo e attorno a loro cominciano a seguire sul filo del rasoio melodie elettriche scure, composte per una delle serie che hanno generato più hype negli ultimi tempi.
Sono davvero le due del pomeriggio? Ci sarà luce qui fuori? È impossibile definirlo: siamo caduti nel Sottosopra. In quella nube di fumo si nasconde il Demogorgone? Se per tematica e sonorità il riferimento più immediato sono senza dubbio i Goblin, i due SURVIVE non cadono mai nel tributo pedissequo a una tradizione pur consistente.
Dagli omaggi synthwave agli anni 80 imprescindibili per accompagnare un prodotto come Stranger Things a distese sonore futuristiche, passando per il rumore, passi pesanti di mostro, tutto contribuisce a proiettare al di fuori delle leggi del tempo e dello spazio quest’ora trascorsa con i due musicisti, complice la perfetta acustica dell’Auditori. Sulla conclusione, Dixon e Stein vanno via come sono arrivati, nelle ombre. Si accendono le luci, nulla più che una nave spaziale sul palco. È tutto vero, o è stato un sogno?
Björk
Non (solo) un concerto, ma uno spettacolo che si fonda sull’auspicio di un mondo in cui essere umano, natura e tecnologica convivono e cooperano nella costruzione di un’identità fluida. Björk è un fiore carnale in una foresta biomeccanica, tra visual spettacolari che raccontano storie e una selva di eccellenti flautiste che ballano tra gli elementi scenografici in costante mutazione.
Ogni dettaglio è estremamente coerente, dagli abiti ai movimenti, ma per quanto sia imponente, la parte visuale non offusca ma accompagna l’aspetto più strettamente musicale dell’esibizione. Sentiamo di certo la mancanza di brani tratti da album precedenti, ma non potrebbe essere altrimenti dal momento in cui lo spettacolo nella sua totalità è una rappresentazione scenica del recente Utopia. Björk, nota per la sua natura volubile, è di ottimo umore, e pronuncia in una maniera deliziosa la parola “Gracias”, di tanto in tanto.
Verrebbe in maniera del tutto lecita che si tratti di prove tecniche di trasmissione aliena – non sarebbe nemmeno così strano, giacché dal Sónar questi tentativi vengono effettuati da alcuni anni. Chissà cosa pensano della nostra musica gli extraterrestri. Chissà quanto tempo ancora ci lasceranno il privilegio della compagnia di Björk, prima di venire a reclamarla come una di loro.
Cesare Basile
Fino ad alcuni anni fa i concerti degli artisti italiani al Primavera Sound contavano le presenze, non sempre eccessivamente nutrite, degli addetti ai lavori del paese d’appartenenza, e poco più. Fa piacere notare che questa tendenza si sia evoluta in senso positivo e che, per quanto non ancora paragonabile al richiamo di altre band, gli artisti che dalla nostra patria sbarcano sui palchi barcellonesi sappiano attirare progressivamente un numero crescente di persone.
Cesare Basile ben rappresenta la compresenza pacifica tra particolarità e universalità del Primavera Sound. Canta in una lingua – il siciliano – che nemmeno molti italiani capiscono. Traspone in un cantautorato oscuro e austero radici folkloriche fortemente ancorate alla sua terra. Una scelta tanto legata al contesto da cui proviene, che può persino stupire se inclusa tra le file di un festival di portata internazionale. Eppure la presenza di Basile, qui, ha una doppia valenza.
Quella lingua e quei suoni parlano, sul livello cognitivo e della comprensione, a una minoranza ristretta, ammiccano a chi condividide quelle origini, ma al tempo stesso è davvero la razionalità l’unica maniera di sentire?
Quante volte, non cogliendo a pieno le parole di una canzone in una lingua straniera, le riempiamo di significati vicini alla nostra sensibilità? Quante volte ci identifichiamo in qualcosa che non ci appartiene direttamente, ma che pure l’inconscio tribale conosce per somiglianza o per scarto rispetto a qualcosa di noto?
La prova del nove è nei corpi che sotto il palco si scuotono, nella sintonia tra i musicisti – amo il fatto che siano prevalentemente donne –, nella sicurezza che Basile dimostra, che lo rende simile a un Giano bifronte, con uno sguardo proiettato alle origini ed uno rivolto verso qualsiasi altrove.
Altri concerti splendidi
Ariel Pink, per la sua capacità di essere Syd Barret, Kurt Cobain e Iggy Pop nel corso della stessa canzone.
Meta Meta, scoperti per caso, durante un passaggio da un palco all’altro: samba, noise, jazz ed energia dal Brasile.
Ibeyi, guerriere da palco, gemelle francesi di origini cubane, per le quali il trip-hop diventa il contenitore sincretico e coerente di influenze distanti anni luce.
Four Tet, generatore automatico di stelle.
Beach House, fatti della stessa sostanza dei sogni.
Il live più deludente
Il fatto che siano stati ribattezzati, da un’utente del forum Primavera Sound Italia, “Lorazepam after sex”, mentre un’altra si chiede quanto debba essere appagante essere il batterista di una band dalle ritmiche oltremodo monotone, rende chiaramente l’idea di quanto, complice la pessima resa dei suoni, i Cigarette After Sex non abbiano superato questa prova live.
Grandi rimpianti
L’impossibilità di assistere a tutti i concerti desiderati a causa delle sovrapposizioni orarie o di ulteriori difficoltà tecniche (come la capienza ridotta dell’Auditori dove si svolgevano alcuni eventi speciali) lascia fuori dalla mia lista gli Spiritualized con orchestra su tutti.
Al tempo stesso, questa sorta di Disneyland della musica indipendente genera non soltanto il desiderio di tornare a vedere in altri contesti le band amate, ma anche quello di recuperare nel corso dell’anno quelle che si sono perse, o che si sono conosciute proprio al Primavera. Ed è questo sentimento di continuità a trasformare il festival in un’esperienza a tutto tondo, che influenza la maniera successiva di fruire della musica dal vivo.
Per rispondere dunque alla domanda iniziale (cosa ha ribaltato le opinioni su questa edizione rendendola tra le migliori?) dobbiamo forse far riferimento proprio al fatto che quest’anno le aspettative fossero generalmente così basse. Questo fattore ha contribuito a rendere questa edizione incredibilmente sorprendente, da vivere senza lo stress che ne ha caratterizzate altre, sovraffollate di nomi apertamente imperdibili, al punto tale da rendere impossibile un solo attimo di tranquillità tra un impegno musicale e l’altro. Proprio come in una relazione, che funziona meglio se non si riveste l’altro dei propri desideri, ma se ci si lascia il tempo di scoprirsi, senza schemi predefiniti. Sono in fondo queste le storie d’amore destinate al successo.