Quel lume in mezzo alla stanza: “Milano ‘83” di Ermanno Olmi

Il nostro ricordo, omaggio e addio ad uno dei maestri del cinema italiano, attraverso l’analisi di una delle sue opere “minori” ma quanto mai significativa, ancora di più al giorno d’oggi: “Milano ’83” doveva essere un “semplice” documentario commissionato dal Comune milanese per celebrare la grandeur della city italiana più rampante degli Anni Ottanta ma si trasformò in una riflessione sulle periferie, la povertà, le piccole-grandi gioie-sconfitte del quotidiano…

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_di Mattia Nesto

Questa settimana è iniziata come peggio non poteva iniziare, anzi non era neppure di fatto cominciata che la notizia della scomparsa di Paolo Ferrari, la mitica “voce” di Jean-Louis Trintignant ne “Il sorpasso” aveva fatto piombare tutti nella tristezza. Ma è con l’addio ad Ermanno Olmi, il mitico regista de “L’albero degli zoccoli” che in tanti hanno sentito di aver perso qualcosa. Già ma da dove si fonda il “mito” di Olmi, coltivato da intere generazioni ed oggi, forse a torto, quasi dimenticato dai giovani registi, così talentuosi ma un poco dimentichi di questo grande passato. Certo il film del 1978, quello girato in stretto dialetto bergamasco e ambientato nella profonda Lombardia di fine Ottocento, quel film che in barba a pronostici e schematismi trionfò a l Festival di Cannes.

Eppure, ben prima di quel capolavoro, Olmi era già Olmi, sin dagli inizi, sin dagli esordi come documentarista per la Edison. Doveva immortalare l’Italia che si rialzava dalle fatiche e dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale ed eccolo invece, giovane regista in erba, inerpicarsi su per i monti a intercettare storie, volti e scorci di vite semplici, di contadini diventati operai, ma nel cuore sempre montanari. Nel momento della luce dell’industria, Olmi analizza l’ombra dell’essere umano, degli uomini “minori” che di quel circo erano solo comprimari ma che nel suo cinema-documentario diventano protagonisti.Tuttavia in questo pezzo ci vogliamo soffermare su un lavoro forse poco conosciuto del maestro che, come al solito nella sua lunga e fruttuosa carriera, era nato per uno scopo e un aspetto ben preciso e invece è finito per essere tutt’altro.

Si tratta di “Milano 1983”, un documentario che ad Olmi fu commissionato dal Comune della città meneghina e dalle principali associazioni imprenditoriali e non per celebrare il fasto della metropoli “da bere”, capofila di quella rinascenza italica degli anni Ottanta che ai più ricordava il Boom degli anni Sessanta del Novecento. Come ha sottolineato egregiamente, com’è suo solito, Alberto Rollo su “la Repubblica – Milano” di martedì 8 maggio 2018, invece di concentrarsi sui peana e sugli squilli di tromba, ancora una volta, si concentra sui coni d’ombra. Armato, diciamo così, di un piccolo lume eccolo attraverso una città di Milano così lontana dalla vulgata dei rotocalchi.

Per un futuro Ministro De Michelis intento a “studiare” ogni possibile discoteca della città, ecco Olmi sondare le periferie, le rimesse dei mezzi pubblici, le stazioni ferroviarie. La città delle luci anni Ottanta raccontata attraverso le ombre delle persone.

Lo diciamo subito: questo documentario che, per ovvie ragioni, non fu bene accolto dai committenti, non è un capolavoro, anzi. Per il gusto di oggi, ma anche per quello di ieri, le immagini sono troppo sgranate, le musiche di bassa qualità eppure c’è una forza, una forza dolce e inesorabile che, a distanza di anni, non ci fa smettere di osservare quegli stralci di vita cittadina. Una vita cittadina, al tempo stesso, così diversa e così simile a quella che, ogni giorno, chi vive a Milano o “su Milano” come si dice, vede con gli stessi occhi. L’operosità degli attacchini dei manifesti pubblicitari è la stessa dei camerieri pachistani (come il povero Sam, tragicamente ucciso per un telefono cellulare qualche giorno fa nei pressi della Stazione Centrale) e sudamericani che ogni mattina punteggiano la metropolitana.

Eppure, dicevamo, è anche molto diversa. I volti descritti da Olmi, anche in molte occasioni visi di ragazze e ragazzi giovani, paiono incredibilmente vecchi, anzi preistorici ai nostri di occhi. Prima chi veniva da Rozzano o da San Giuliano  (da dove, guarda caso, provengono rispettivamente, tra gli altri, Fedez e J-Ax, per dire) si poteva immediatamente riconoscere: oggi si fa molta più fatica ma la distanza tra centro urbano e periferia profonda non è così mutata, anzi.

I fumi delle fabbriche, già post-industriali essendo nell’83 (ma ancora nessuno lo sapeva) ci sembrano per davvero un ricordo da “cockeria” dell’Ottocento inglese eppure le nostre nonne e i nostri nonni, perfino i nostri padri e madri li hanno conosciuti bene quei luoghi, magari ci hanno perfino passato una parte considerevole della loro vita.

Già la vita. Vita che Olmi sa raccontare, senza alcuna forma di retorica, come pochi, in Italia e nel mondo.

E di vita, anzi di vite è letteralmente costellato questo documentario, vera e propria altra faccia della medaglia di quella città che nell’immaginario di tutti era popolata soltanto da paninari o da modelle.

Col senno di poi, le ultime sequenze del documentario, riprese durante il Natale di quell’anno, con tutte le vetrine dei negozi addobbate a festa, oltre ad un logico rimando alle strofe di Giorgio Gaber “ma com’è bella la città, ma com’è grande la città, piena di vetrine e di negozi”, non possono non far pensare a qualche anno dopo, quando proprio dalla città di Milano partirà quell’ondata di inchieste sul malaffare italiano che farà crollare la Prima Repubblica. Mani Pulite è già, in nuce, nel racconto di Olmi, con quelle differenze profonde e abissali raccontate senza bisogno di urlare, ma con la sola forza delle immagini.

Allora in tanti dovrebbero tributare un sentito grazie ad Ermanno Olmi che, armato soltanto di un piccolo lume e dei suoi occhi e della sua fantasia, ha saputo illuminare il buio delle nostre coscienze, delle nostre città, grandi certo ma anche minuscole, rappresentate come sono dalle “piccole persone” che la popolano. In attesa di un grande romanzo o di un grande film su un panettiere arabo che da Pero si muove verso Via Savona per lavorare, Olmi ci ha lasciato, anche in questo tutt’altro che perfetto documentario, una grande testimonianza di vita, di arte e di luce. Sempre partendo dall’ombra di quell’eterna Italia contadina da cui, volenti o nolenti, proveniamo. Savoia, nobili e aristocratici esclusi, ma questi non contano, non contano mai fino in fondo.