L’architettura organica di Wright alla Pinacoteca Agnelli

Un viaggio tra le carte, i pensieri, i progetti realizzati e non, del grande architetto statunitense, con un occhio interessato al suo legame con l’Italia.


_di Alessio Moitre

L’ambiente è riferimento imprescindibile dell’architettura e dell’arte disegnativa di Wright che nell’esposizione alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli si esplicita in una serie di disegni, accompagnati da annotazioni da umanista scritte sottilmente tra i moduli delle costruzioni. Nelle sei sezioni della mostra viene sviluppato il pensiero dell’americano partendo innanzitutto dal 1910, prima visita in Italia, sino al 1951, ultimo momento di vita italiana, vissuto per volontà e interesse di fama ma anche interessata, con la possibile realizzazione del progetto “Masieri Memorial” (1951 – 1955), una costruzione mai nemmeno incominciato ma definita nei dettagli soprattutto estetici, da parte dell’architetto. Mi capita sovente di partire dal termine delle mostre ma la ragione in questo caso mi pare lampante. Soprattutto in merito alle critiche che in fine decretarono l’aborto del proposito.

La critica infatti vedeva nella realizzazione del complesso un danno per la città lagunare, per altro sovente al centro di dibattiti ancora oggi, non solo per la sua fragilità ma per il complesso apparato di conservazione, avvertito in talune circostanze come conservatorismo inutile. Il progetto esposto in una carta proveniente dall’archivio della fondazione dedicata all’architetto, è un utile prodromo datato ma che ben mostra l’architettura organica che tanto ha reso celebre Wright nella storia.

Dietro a quella facciata ammirabile a pochi centimetri da una teca contenente documenti della mostra a lui dedicata negli anni cinquanta (utili oggetti museologici, potremmo affermare) e dalla fotografia in posa insieme a Carlo Scarpa, c’è l’umanista con i suoi studi, il conoscitore lungimirante della natura come fonte illimitata di stimoli. Studi i suoi, peraltro incentrati sulla coscienza dell’uomo nello spazio, immerso, da ospite, nell’ambiente circostante.

Unbuilt Project. 1952. Brown ink, pencil and color pencil on tracing paper. 31 3/4 x 52 7/8″ (80.6 x 134.3 cm). The Frank Lloyd Wright Foundation Archives

Dai progetti visionabili della Falligwater o Casa sulla cascata (1935), un prodigio di simbiosi, alla Taliesin house (1911), abitazione concepita come luogo privato e famigliare, trasformato in teatro della tragedia della morte della moglie e dei suoi due figli ad opera di un servitore (fatto che inevitabilmente segnerà la carriera di Wright), sino all’apoteosi della costruzione del Museo Guggenheim datata 1943.

Spirali, cerchi, figure semplici assoldate per annichilire una certa estetica vacua, priva d’utilità, al servizio e nel rispetto della condizione socio-culturale vissuta, a cui il nostro teneva particolarmente (negli anni trenta la depressione di fine venti segnerà il paese americano, in modi ancora non del tutto scandagliati).

Un’architettura dunque per l’uomo e che nell’uomo trovava il suo compimento.

Sicuramente lontana da una certa forma di protagonismo da socialite che ha influenzato buona parte degli architetti celebri, al centro per ragioni costruttive o strutturali, di critiche, con progetti che paiono essersi allontanati dalla semplice necessità di confronto e di adattamento ai luoghi.

L’esposizione rimarrà aperta sino al 1 luglio ed è stata presentata dalla Avery Architectural & Fine Arts Library, Columbia University in collaborazione con la Miriam & Ira D. Wallach Art Gallery, Columbia University.