L’arte dell’artista curda rappresentata tramite installazioni, video e scritti, in un gioco di riferimenti al reale.
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_di Alessio Moitre
Per incontrare l’arte di Fatma sono sceso per le scale. Nella stanza di un buio precario, il video a piena parete mi mostra una donna ignuda arroccata in cima ad una costruzione di sassi immersa in una cava dalla terra rossa. Dalla sua postazione, tira pietre verso lo spettatore pur non avendocela con lui. È altresì interessata quasi a scacciare l’aria, a colpire il fantasma di esseri che si presentavano diafani al suo cospetto. Poi lo scenario cambia, la ragazza (l’artista in persona, non era ancora stato detto) sente e si avvede di alcuni detriti che gli cadono alle spalle. La paura diventa moto d’offesa, cominciando a scagliare ciotoli verso la costa dell’avvallamento. Come in precedenza nessuno è stato avvistato. Né essere, né suggestione.
Infine si libera dalla sua stessa fortezza, facendo ruzzolare un consistente macigno verso il terreno. Se ne va uscendo dall’inquadratura.
Se la pochezza della mia descrizione non fa gioco alla Bucak, mi posso scusare sostenendo che il video (“Fall” , 2013) nutre il visitatore della vasta “intellettualità” di chi l’ha generato. L’artista turca leva 1984 da tempo omaggia Torino con le sue creazioni e il fatto non può che essere positivo, vista la precarietà in cui si muovono le arti visuali cittadine dell’ultimo decennio (anche prima, ma non è mia intenzione affrontare la questione in questa occasione né maramaldeggiare nessuno).
La nuova esperienza espositiva che vado descrivendo è presso la Fondazione Merz (in collaborazione con la Fondazione Sardi), titolo “So as to find the strength to see”, progetto a cura di Lisa Parola e Maria Centonze.
Non ho cominciato dal principio dello spartito: in sostanza l’opera video da me descritta si trova bensì al fondo del percorso ed ammetto di essermi aggirato ricercando la Bucak da me ammirata sovente. In apertura vi è infatti la presenza di una moltitudine di catini riposti a terra, in alcuni si capta il suono ricreato di una goccia (la composizione sonora del lavoro è del musicista Pieter Snapper).
Ebbene, la composizione (“Enduring nature of thoughts”, 2018) ti blocca ma come un luce tenue, la parvenza di un qualcosa, una velata sensazione di possibile accadimento. Ammetto che dare forma ad una volontà di collettiva partecipazione ad un sentimento è più arduo eppure non me ne discosto per buoni cinque minuti. La fredda sensazione donatami dal bacile si acquatta affianco allo stomaco ma non lo stuzzica. Insomma, per farla breve, evitando complicazioni lessicali, è un’installazione avveduta, ragionata ma forse di eccessiva costruzione tecnica, che pure serve e non mi stupisco di notare in alcuni contenitori, un prodigio come un piccolo riproduttore sonoro. Ma nulla, sono sconfitto.
Mi dirigo d’istinto verso un enorme mucchio di terra che dal colore appare come fortemente argillosa. L’installazione “Damascus Rose” (presentata in varie forme e contesti dal 2016) merita innanzitutto una spiegazione. Ad ancillarmi viene il comunicato stampa che riprendo senza cambiamenti:
“Ripensata questa volta in stretta relazione con l’architettura, Damascus Rose è un giardino nato da una mobilità forzata e da una possibilità di sopravvivenza. Un centinaio di piante di rose di Damasco – una delle varietà più antiche e oggi a rischio di estinzione a causa della guerra civile che costringe i coltivatori ad abbandonare le terre – intraprende un viaggio al di fuori del proprio contesto ambientale trasportato a piedi da comunità e singoli come in una sorta di staffetta che ogni volta supera frontiere e confini. Arrivate a destinazione le piante sopravvissute vengono innestate, trapiantate e coltivate senza però mai la certezza della loro sopravvivenza”.
Lo scritto poi continua. La luce alina delle vetrate del museo illumina le barbatelle innestate, piantate a corta distanza (forse eccessiva) le una dalle altre.
«È una lenta via crucis atea lungo la storia che riporta fatti come comuni annotazioni»
Azzardo un passo nella direzione della botanica. La rosa damascena (incrocio tra la rosa gallica o Rubra, per i greci e latini e la phoenicia) è ancor oggi molto diffusa e non rischia di scomparire. Diverso è il caso della sua produzione su suolo siriano, invece gravemente intaccata dai recenti accadimenti. Superando però la saccenteria da giardiniere domenicale, devo ammettere che il lavoro è non solo ricco di suggestioni ma di carsiche considerazioni sull’associazione piante/esseri umani. Fa dolore notare rose così nobili, maltrattate e giustamente simbolo di analisi sulla ramificata condizione dello sradicamento culturale, geografico e fisico dei popoli. Sul piano delle vaste tesi sulla violenza, azzeccato è il lavoro “Fantasies of Violence”, (2017-2018) ed è per me un passaggio conseguente dal processo scaturito dall’analisi sulle rose damascene.
Le lastre di zinco in numero di 117, disposte splendidamente non seguendo il banale ordine di grandezza crescente. Su di esse sono stati incisi dei segni. Sono estratti di giornali europei, americani, turchi, riproducenti testimonianze di atti violenti. È per il visitatore una passeggiata fatta di vari osservatori incombenti che ne toccano la coscienza. È una lenta via crucis atea lungo la storia che riporta fatti come comuni annotazioni. Si può anche soprassedere nel leggerle (una al giorno sarà visibile), quelle cinerine superfici comunque fanno di tutto, come figli, per attrarre l’attenzione. Una violenza a cui l’artista non assiste solamente, portandoci in dote una rara forma di comprensione dove a tratti pare di scorgere un passaggio, perché di scalata si tratta non certo di comoda passeggiata.
Ne sono ancora più convinto tornando ad un suo video, “Omne vivum ex ovo” del 2013, appartato in una saletta all’estrema sinistra della Fondazione. Lavoro che mi ripaga del percorso intrapreso. Una donna, in precario equilibrio, pone nelle fessure di blocchi di cemento, delle uova. Attorno le rovine diventano persin splendide nel caos silenzioso. Assisto e mi domando sino a che punto voglia continuare nella sua follia. Di semplice celia non si tratta: noto in uno degli schermi la donna tenere per le zampe, esanime, il corpo della gallina. Il comunicato stampa sottolinea giustamente la surrealità dell’accaduto. Continuo a pensare alle uova e a domandarmi a chi spetterà la cova, l’istruzione dei pulcini, l’età adulta della procreazione.
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L’autore – Alessio Moitre – si occupa di Arte a Torino: puoi seguirlo anche sul suo blog qui