I limiti della città ideale con Carlos Garaicoa alla Fondazione Merz

Fino al 4/2, un’analisi sospesa nel tempo degli spazi in cui viviamo, in cui abbiamo vissuto e in cui vivremo (e non vorremmo vivere). Carlos Garaicoa affronta il tema dello spazio urbano in El Palacio de las Tres Historias.

_di Miriam Corona

I palazzi possibili e immaginari contro le città reali, esistenze concrete. Palazzi che ci potrebbero essere ma non sono e, talvolta, è meglio così.

Carlos Garaicoa nel suo progetto El Palacio de las Tres Historias, in mostra presso la Fondazione Merz, ricerca lo spazio ideale nelle città, luogo da vivere attivamente, prendendo come punto di partenza Torino e le sue progressive trasformazioni nel corso del ‘900, prima tra tutte la spinta industriale, che ne hanno ridisegnato le architetture e il paesaggio urbano.

L’entrata della mostra ci immerge già in un contesto urbano, cinetico, seppur estremamente minimalista: due grandi cartelloni, dotati di pannelli prismatici rotanti che cambiano a intervalli di tempi sincronizzati, comuni nelle grandi città, l’uno intitolato Limpio, brillante, inútil (2017) e l’altro Presente Passato Futurismo (2017). Essi, in un gioco tra passato e futuro, ammiccano alle pubblicità e alla frenesia con cui esse vengono trasmesse al mondo, mezzo di informazione che manca il suo scopo. La grafica futurista (tema che viene ripreso più volte nel corso della mostra) ricorre in entrambi e fa da ponte per le diverse epoche storiche a cui Garaicoa si riferisce: il passato che sogna un futuro, ovvero il nostro presente, in cui noi, a nostra volta, sogniamo un futuro. Attorno ad essi, sulle pareti è appesa la serie Edificios Parlantes (2011 – 2012), disegni di strutture architettoniche la cui linea è sviluppata dalla denominazione che li caratterizza (“Punto y aparte” – punto e a capo, due edifici riprodotti alla stessa maniera o “Less is More” – in una contraddizione visiva che pone la scritta su un edificio di grandi proporzioni con un numero cospicuo di appartamenti al suo interno), tutti riprodotti e incisi su lastre tecniche di origine danese.

El Palacio de las Tres Historias occupa l’ampio spazio adiacente; una serie di teche che contengono gli edifici che appartengono a un momento della storia italiana ben preciso: il Sacrario militare di Oslavia, la Torre di Maratona dello stadio di Torino, la Casa del Fascio a Como, il Palazzo della Civiltà a Roma, il Villaggio operaio SNAI e la Torre Littoria di Torino. Simboli del periodo fascista che vogliono portare l’attenzione su come la storia plasmi non solo il contesto urbano a cui appartiene ma, come le città raccontano, anche il futuro e dunque il nostro presente. Grandi bolle di vetro, solidi trasparenti, escono dalle finestre delle strutture, come per svuotarle di un vuoto invisibile ma che tutti avvertiamo: la pesantezza di ciò che è sia un passato doloroso che un’architettura che non si inserisce adeguatamente nell’armonia delle città in continua trasformazione.

Delle installazioni audio, fruibili attraverso delle cuffie, accompagnano le testimonianze della storia che Garaicoa intende raccontare: Filippo Tommasi Marinetti che recita La Battaglia di Adrianopoli, La Definizione di Futurismo e, con l’accompagnamento per piano di Aldo Giuntini, le Sintesi Musicali Futuristiche; Pier Paolo Pasolini che recita Supplica A Mia Madre e Io sono una forza del passato; infine, uno sguardo contemporaneo al Progetto Cavallerizza con una conversazione con Anna Ippolito, Tonichina e Mario Zorio. Due modelli illustrano le costruzioni del Campus o la Babel del conocimiento (2002 – 2004), un luogo di istruzione il cui scopo è porre delle regole alle modalità di apprendimento di chi ci vive. L’inevitabilità di un luogo distopico è più che prevedibile: le direttive comprendono infatti un numero più che limitato di studenti (sessanta al massimo), agenti posti in cabine di controllo che elaborano e forniscono il sapere, senza conoscere le loro nozioni, la loro percezione della realtà e l’importanza che danno alla loro gestione: “Ne conosciamo solo l’efficacia”.

Questo non fa che causare una serie di vere e proprie leggi restrittive, a partire dallo scaglionamento di entrata e uscita dalle aule intervallate di 15 minuti tra un corso e l’altro, in modo che non ci possa essere alcun contatto tra gli studenti. Un microcosmo di relazioni di potere complesse, soggette all’invisibilità del controllo, che si rifanno al Panopticon di Jeremy Bentham, struttura di prigione ideale che è stato anche preso come modello per la costruzione del carcere Le Nuove di Torino. In una stanza a parte, l’opera Sobre el bien y el mal se han escrito miles de pàginas (2017), metafora compatta e concettuale delle contraddizioni della storia necessarie a tenerla in piedi. Una serie di fogli, che dal nero scolorano al bianco, retta agli opposti rispettivamente da un’aquila e da una colomba; una lunga scala di grigi a denotare che la storia non si muove in due sensi, il bene e il male, bensì è caratterizzata per lo più dalle molteplici sfumature intermedie che stanno nel mezzo, senza un significato ben preciso, rappresentate dal nulla: ulteriore indizio che la storia secondo l’artista debba svolgersi in triplice modalità.

Nel piano interrato, un’installazione audio/video in loop, “Abismo” (2017), denuda il concetto di terrore tramite un mezzo banale quanto sublime: la musica. La proiezione non mostra altro se non i gesti di due mani che si articolano durante il discorso di un personaggio che scopriamo essere niente meno che Adolf Hitler durante una delle sue filippiche. Il tutto accompagnato dalla raffinatissima aria da camera del Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen, interpretato per la prima volta dallo stesso compositore nel campo di concentramento di Stalag a Görlitz nel 1941, stesso anno in cui Monaco si proclama città “ripulita” dagli ebrei. Le mani, fautrici e mandanti dei peggiori crimini del Novecento, spogliate del loro proprietario, paiono ora i compassi che disegnano la musica nell’aria come un direttore d’orchestra; il connubio desta bellezza e rammarico, lasciandoci talvolta confusi e disillusi da una sinfonia di cui non rimane altro che l’essenza dell’umanità e della vita appesa a un filo.