The Reagan Show: alle origini del “politrash”

In concorso per “Festa mobile” al 35° Torino Film Festival, gli americani Pacho Velez e Sierra Pettengill presentano “The Reagan Show”, documentario che ripercorre le controverse tappe dell’amministrazione in carica negli anni Ottanta, in tutte le sue infinite contraddizioni. Un montaggio durato anni, che assembla materiale televisivo dell’epoca e filmati inediti, mettendo in luce l’irresistibile presenza mediatica di un uomo che cambiò irreversibilmente i modi della comunicazione politica , in tempi apparentemente lontani da tycoon o presunti tali.


_di Alberto Vigolungo

Per primo fu Franklin D. Roosevelt. Confrontandosi con la radio – che negli Stati Uniti è un bene di consumo di massa fin dagli anni Venti – il presidente del “New Deal” seppe comprendere come nessun altro prima di lui le potenzialità della comunicazione broadcast, inaugurando la pratica dei discorsi settimanali alla nazione, da leggere la sera, seduto vicino al proprio caminetto (magari facendo in modo che il crepitio rassicurante del fuoco arrivasse agli orecchi dell’ascoltatore, scenario che è già tutto un programma). Sfruttando la portata della radio come mezzo di diffusione circolare, Roosevelt rende la stessa lo strumento privilegiato della propria narrazione. Un piano che si rivelerà fruttuoso anche durante la guerra, come del resto sarà anche per la propaganda britannica alleata, che alla lunga manderà in pezzi le strategie di Goebbels.

Nel suo libro “Guerra e mass media” (Carocci, Roma 2007), Enrico De Angelis dimostra come non altrettanto efficace risultò la strategia di Lyndon B. Johnson e del suo staff durante la guerra in Vietnam e in particolare dal 1968, quando, con l’offensiva del Tet, emerse il racconto di una guerra “maledetta” che, filtrando soprattutto attraverso la televisione, andò a rafforzare quella che molti studiosi hanno definito la “breccia nel consenso”. Le difficoltà dell’amministrazione Johnson testimoniano la complessità di un universo mediatico che negli ultimi anni ha mutato notevolmente le proprie dinamiche, a fronte di un mezzo tanto potente quanto sconosciuto come quello televisivo ( oggetto non a caso di miti che sopravvivono ancora oggi) e più in generale di un cambiamento epocale nella storia dell’informazione la quale, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, vede una crescita inarrestabile delle opinioni pubbliche occidentali come fattore cruciale nelle decisioni politiche.

“Dopo Reagan, ogni uomo politico dovrà fare della televisione il proprio alleato principale.” Lezione recepita un po’ da tutti, in patria e non solo.

TELEVISION, TELEVISION

Nel quadro di un cambiamento generale nel rapporto fra mass media e potere occorso con l’inizio della Guerra Fredda e di indiscussa supremazia della televisione, Ronald Reagan è stato un abilissimo fruitore del circuito mediatico a fini di propaganda. Procedendo in un montaggio dinamico che combina interviste, stralci di discorsi, apparizioni pubbliche, gaffe fuori onda compresi fra il 1983 e il 1989, il film propone un lettura di quell’esperienza soprattutto alla luce di questo rapporto, che indubbiamente Reagan seppe indirizzare a proprio vantaggio.
E
ntrato in carica nel 1981, la sua attività è incessantemente rivolta alla buona comunicazione. Del resto, il signor presidente conosce bene i trucchi del mestiere, lui che aveva trascorso una vita lavorando sulla propria immagine e che aveva sempre incarnato, agli occhi del ceto medio bianco, gli ideali del sogno, costantemente veicolati dall’industria cinematografica a stelle e strisce fra gli anni Trenta e i Cinquanta, quando i nemici, nazifascisti prima e comunisti poi, erano ben definiti. Scorre in didascalia:

“Reagan ha recitato in ben 53 film di Hollywood, interpretando quasi sempre il ruolo dell’eroe americano buono.”

Eccolo così vestire i panni dello sceriffo inflessibile che impone la legge in una cittadina di frontiera, o in quelli dello sportivo di successo… Una carriera tutt’altro che rinnegata dal 40° presidente degli Stati Uniti, che in un’intervista del 21 dicembre 1988, a pochi giorni dalla scadenza del suo mandato, afferma di non aver mai potuto esercitare la sua carica senza aver fatto l’attore. E in questo passaggio, posto significativamente all’inizio del film, c’è un po’ tutto il “personaggio” Reagan. In effetti, negli otto anni trascorsi alla Casa Bianca, l’ex-attore dimostra di tenere molto alla comunicazione, anzi di tenere soprattutto a quest’ultima, rendendosi onnipresente tanto nelle cerimonie pubbliche quanto negli eventi sportivi e puntando a una posizione di primo piano nelle pubbliche relazioni, con un’intensità che nessuno aveva mai dimostrato prima.
Su questo punto, l’eletto repubblicano e il suo staff adottano una strategia che fa della televisione lo strumento prediletto, sfruttando la pervasività di un mezzo che negli anni Ottanta non ha rivali: prova ne è la reazione innescata in una piccola comunità del Midwest di fronte alla trasmi
ssione di un film apocalittico – ambientato proprio in quella cittadina – mandato in onda nell’autunno del 1983, nei mesi in cui Reagan vara un imponente programma di riarmo nucleare emblematicamente nominato “Guerre stellari” (l’immaginario del presidente è poi sempre quello), rilanciando un’escalation di tensioni con Mosca.

«Così come si inventa presidente, Reagan inventa una politica mediatica davvero personale, che non consiste solo in una eccezionale apertura alla stampa, ma anche nella creazione di un network privato al servizio della Casa Bianca, allo scopo di contrastare la rete dell’informazione tradizionale»

Ora, mi tengo bene alla larga da prospettive ipodermiche da età della pietra, me è indubbio che il rapporto fra televisione e pubblica opinione tocchi il suo apice proprio negli anni Ottanta, rendendo il mezzo televisivo anche il ricettacolo di ansie e paure che travalicano le mura domestiche, specialmente negli States, da dove non a caso provengono gli studi più importanti sull’argomento, studi che si concentrano sulle pratiche di una società basata sulla la televisione, che nelle case di milioni di americani resta accesa anche tutto il giorno (la società immersa nel “Rumore bianco” di cui parla DeLillo, per intenderci.).

La strategia mediatica di Reagan è evidente soprattutto nei primi anni, quando la sua politica è più aggressiva, sia in materia economica che di politica estera: anni all’insegna dell’imperativo “Let’s Make America Great Again” (sì, proprio così, non avete letto male, è questa l’espressione utilizzata dal signor Ronald, con la “R”, non con la “D”), parole che oggi risuonano fortissime, lasciando l’impressione di non aver fatto molta strada. Dunque, è attraverso la televisione che Reagan costruisce la sua immagine istituzionale, quasi a immedesimarsi in un personaggio che non potrebbe mai fare a meno di quel mezzo, senza limitarsi tuttavia all’attuazione di modelli tradizionali.

Così come si inventa presidente, Reagan inventa una politica mediatica davvero personale, che non consiste solo in una eccezionale apertura alla stampa (sotto la sua presidenza la Casa Bianca permette l’accesso a luoghi in passato negati a telecamere e taccuini), ma anche nella creazione di un network privato al servizio della Casa Bianca, allo scopo di contrastare la rete dell’informazione tradizionale (ABC, CBS, NBC ecc. ecc.). E’ un fatto emblematico, perché nel grande decennio della tv (nel 1980 Ted Turner fonda la CNN, la prima rete “all news” h 24), Reagan istituisce un apparato mediatico interamente controllato da Washington.

Alexandra Hannibal, Directors Pacho Velez and Sierra Pettengill, Amy Entelis, and Courtney Sexton

Questa duplice strategia, basata da un lato su un atteggiamento di estrema apertura nei momenti di popolarità e su uno di ritiro più cauto nella crisi dovrebbe limitare, secondo il presidente, l’effetto dei media sulla sua propaganda. Nei momenti di maggior difficoltà – non pochi, come testimonia il documentario – Reagan non avrebbe mai potuto permettersi di attaccare apertamente i media (cosa oggi normale per Trump, il quale, oltre alla sua teatrale arroganza, ha twitter a disposizione), ma cerca di tenerli a distanza di sicurezza, come quando, nel 1986, torna da Reykjavik senza aver siglato alcun accordo in materia di armamenti con l’Unione Sovietica.

NANCY, MY DEAR

Un altro tassello importante nella comunicazione reaganiana è dato dalla moglie Nancy, la quale forma con il marito una delle coppie presidenziali più famose nella storia del Paese, come in precedenza erano stati solo i Kennedy e in seguito i Clinton e gli Obama. Nelle cerimonie pubbliche appaiono sovente mano nella mano, uniti in una complicità dal sapore di zucchero filato. Per l’America bianca e conservatrice, Nancy Reagan corrisponde all’ideale della moglie volitiva, disposta a seguire il proprio uomo in capo al mondo.

Alla sua figura il presidente farà sempre più ricorso con il passare degli anni, specie nel corso del suo secondo mandato il quale, fra crisi interne (vedi polemiche sollevate su uno scambio di ostaggi e armi, ingenuamente negato poche ore prima) e le trattative con Mosca che tengono impegnati lui e il suo staff per più di tre anni, culmina con il noto vertice bilaterale del 1988. In generale, la seconda metà degli anni Ottanta restituisce l’immagine di un presidente più dimesso, distante dall’attività mediatica che fino a pochi anni prima l’aveva portato a una riconferma schiacciante.

Gli accordi di Mosca (1988), presi da parte americana quasi in concomitanza con il definitivo via libera del senato, rappresentano forse l’atto politico più importante della presidenza Reagan, almeno da un punto di vista simbolico. La fotografia che immortala la stretta di mano fra lui e Gorbacev è passata alla storia non tanto per la portata di quell’accordo, quanto per aver visto sedersi, dopo decenni, un presidente americano e un leader sovietico attorno allo stesso tavolo. Ma si sa, l’URSS è ormai ai titoli di coda. Reagan, pure. Il voto di fine anno dimostrò che la maggior parte dell’elettorato non cercava poi tanto una discontinuità, investendo colui che era stato il vice di Reagan, George Bush senior.

In realtà, un po’ tutta l’amministrazione Usa degli anni Ottanta si configura come una gigantesca contraddizione, al di là delle analisi politiche che ovviamente restituiscono chiavi di lettura molto diverse.

Qualcuno lo addita come il responsabile dell’annientamento della classe media americana a causa di tagli alla spesa pubblica e della assenza quasi totale di una politica sociale, con strascichi di lunghissimo periodo, altri ritengono che Reagan abbia restituito fiducia al Paese, inaugurando un periodo di crescita economica lungo l’arco dei suoi due mandati. Certo, sul piano dell’immagine, che è poi il vero spunto di questo documentario, dopo Reagan nulla restò davvero come prima. Come dice un commentatore dell’epoca, mentre sullo schermo si susseguono le immagini della campagna repubblicana “Bush ‘88”, animata da inni patriottici e sventolii di bandierine, “Dopo Reagan, ogni uomo politico dovrà fare della televisione il proprio alleato principale.” Lezione recepita un po’ da tutti, in patria e non solo.