Al cinema con l’adattamento di “Una questione privata”, i cineasti toscani presentano un film che, pur ricco di spunti suggestivi, manca della coralità da grande opera. Una prova che dimostra come il passo fra letteratura e cinema – costantemente invocato dall’industria – non sia affatto breve, neppure per i fratelli Taviani, certo non nuovi a questo tipo di operazione.
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_di Alberto Vigolungo
Era da un po’ di tempo che i registi italiani non si confrontavano con un soggetto letterario di peso. Nel caso di Paolo e Vittorio Taviani – veri e propri highlander del nostro cinema – la loro opera ha incrociato la strada della letteratura in più di un’occasione, dai tempi di “San Michele aveva un gallo” (1972), ispirato a un racconto di Tolstoj, passando per “Padre padrone” (1977) e “Il sole anche di notte” (1990), quest’ultimo tratto di nuovo da un racconto del grande scrittore russo, fino ad arrivare a “Le affinità elettive” (1996), dall’omonimo romanzo di Goethe e al più recente “Meraviglioso Boccaccio” (2015), colorato affresco cinematografico del Decameron. Tuttavia la messa in scena di “Una questione privata”, ultima fatica di Beppe Fenoglio, assume per i Taviani non tanto i contorni di un omaggio a questa passione, quanto piuttosto di una necessità etica forte, di risposta ai tempi, come spiega Paolo in un’intervista a margine della proiezione del film, alla Festa del Cinema di Roma:
“Mi dicono: un altro film sul fascismo… Io credo invece che il tema si ponga in tutta la sua urgenza oggi più che mai: i fascismi stanno tornando, stanno cercando di tornare e quindi bisogna reagire.”
Nell’intento degli autori (Paolo alla regia, Vittorio alla sceneggiatura) la riflessione sulla grande Storia occupa comunque una posizione di secondo piano, preferendo lasciare affiorare l’universalità di una storia di amore e amicizia, di personaggi che con le loro passioni, sentimenti non confessati, dolori, sono inesorabilmente travolti dal flusso della storia, che per l’Italia del 1943 significa caduta fulminea e rovinosa del regime, armistizio e invasione militare da parte degli ex-alleati; uno spartiacque che coincide con il passaggio da una condizione di torpore collettivo alla presa di coscienza. Lo stesso che ispirerà la lotta in collina e sulle montagne, fino al 1945. Ma al protagonista di questa storia il mondo pareva sottosopra già da tempo: studente colto, con la passione per la letteratura anglosassone che porta impressa nel nome per il quale è conosciuto, Milton è un personaggio errante, sempre in cerca di una risposta, nella vita da partigiano così come negli affetti che la guerra ha allontanato, isolato in una ricerca che lo rende estraneo ai suoi stessi compagni di lotta. E in nome di un’antica verità, Milton è disposto a mettere da parte la guerra stessa, come se l’esperienza di quest’ultima, unita a una maggiore consapevolezza della propria esistenza, muovesse con una nuova energia il ragazzo dall’inerzia che aveva contrassegnato la sua vita precedente.
Scrive Fenoglio:
“Non poteva più vivere senza sapere e, soprattutto, non poteva morire senza sapere, in un’epoca in cui i ragazzi come lui erano chiamati più a morire che a vivere. Avrebbe rinunciato a tutto per quella verità, tra quella verità e l’intelligenza del creato avrebbe optato per la prima” – da “Una questione privata”, capitolo III.
Ed è il ritorno a casa di Fulvia, al luogo di una storia lasciata in sospeso a mettere Milton sulle tracce di questa verità. L’inquietudine ferina che domina l’animo del personaggio si manifesta fin dalla prima scena del film, in cui si osserva Milton risalire il sentiero che porta alla villa, abbandonata con l’inizio dell’occupazione tedesca: il rifugio dell’adolescenza, delle ore trascorse in compagnia della ragazza che amava senza trovare mai il momento giusto per dichiararsi, le traduzioni dall’inglese, le sere di primavera scandite dalla melodia rassicurante di “Over the Rainbow” (segno peraltro di una prima forma di resistenza culturale, visto che la musica americana in genere era proibita in tempi di regime.). Da questo ritorno fugace e dalle parole scambiate con la vecchia domestica rimasta a sorvegliare la casa inizia per Milton l’affannosa ricerca di Giorgio Clerici, l’amico con cui ha condiviso tutto, il liceo, l’arruolamento a Roma, lo sbandamento dell’esercito e la lotta partigiana, una volta a casa, dal quale vuole sapere se davvero tra lui e Fulvia c’è stato qualcosa.
La guerra corre però come Milton, e il ragazzo viene a sapere che Giorgio è stato catturato da una pattuglia, allontanando quella verità. Cercando di ricomporre il fragile puzzle della sua esistenza Milton non esita a correre pericoli, imboccando strade e sentieri che da un momento all’altro potrebbero consegnarlo al nemico: nella guerra, Milton non rinuncia a ricercare se stesso. E questa volontà disperata a spingerlo a catturare da solo un fascista per uno scambio di prigionieri, impresa che fallirà. Il montaggio gioca costantemente sull’alternarsi di due dimensioni: drammatica incertezza del presente (personale e collettivo) e ricordo nitido del passato; momenti che si discostano chiaramente l’uno dall’altro per il ritmo (sostenuto nella quotidianità di Milton, dilatato nei flashback), oltre che per una certa maestria fotografica che tocca punti di notevole resa – evidente nell’immagine in campo lungo di Fulvia, di spalle, vestita di azzurro, guardare il mare da una terrazza panoramica della riviera, veramente suggestiva nell’analogia che si instaura fra il colore del vestito e quello intenso del mare, con la figura della ragazza che si staglia nell’immensità dello stesso.
Altrettanto interessante, dal punto di vista del linguaggio, la sequenza in cui avviene l’esecuzione di un prigioniero fascista, il quale, fuori di sé per il terrore, mima e grida il ritmo forsennato di una batteria jazz – il primo piano del volto teso e infradiciato dura diversi secondi, forse in una drammatica allusione alla cosiddetta “doppia morale” – che termina con un piano di Milton in cui il suono-off è spezzato da una raffica di sten, seguita dal silenzio. Ma si tratta di alcuni momenti, momenti di buon cinema un po’ troppo a sé stanti, inseriti in un quadro che non convince del tutto: a livello di riprese, al di là della scelta di non girare nelle Langhe e, a ben vedere nemmeno nella provincia di Cuneo, ad eccezione di una Saluzzo che con le sue strette vie in selciato e i suoi portici si traveste nell’Alba fenogliana, buona parte del film si sviluppa in un ambiente premontano che ha poco a che vedere con le colline tipiche della zona (almeno per chi scrive, che conosce bene quei luoghi).
Pur sottolineando le buone interpretazioni di Luca Marinelli (due anni fa eccellente nei panni di Cesare in “Non essere cattivo”, testamento alla regia di Claudio Caligari, qui nel ruolo di Milton) e di Valentina Bellè, la bella e sfuggente Fulvia, emerge in diverse occasioni una recitazione che tende talvolta ad un teatralismo forzato, specie nelle poche scene d’azione, che stridono con una fotografia e una posizione della macchina da presa mai lasciate al caso, queste ultime prove davvero di una regia esperta. Lacune che si allargano anche al parlato, in una dizione del Centro Italia che gli interpreti talvolta non sono riusciti a celare, senz’altro privo di quei piemontesismi tipici della prosa fenogliana e che avrebbero certamente dato un tocco in più da un punto di vista complessivo.
In fin dei conti, la pellicola dei fratelli Taviani rappresenta un buon film che lascia però emergere non pochi punti deboli, pur riconoscendo tutte le difficoltà del caso. Dopotutto, chissà se Fenoglio avrebbe approvato la trasposizione di un suo romanzo sul grande schermo, lui, che pure aveva avviato alcuni progetti di scrittura per il cinema…