Al Teatro Gobetti di Torino la nuova produzione TST traspone in forma teatrale la scrittura del cantautore piemontese, partendo dal libro della sua vita Da questa parte del mare.
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_di Silvia Ferrannini
Il pescatore di coralli Gianmaria è stato in realtà un uomo di terraferma. Ha portato per anni la divisa di ferroviere e forse proprio le confusissime baraonde umane che doveva indirizzare hanno fatto germogliare in lui un amore per gli altri incondizionato, al punto da non riuscire a parlare di sé senza un “lui, loro, lei, tu”.
Il libello della vita di Testa, Da questa parte del mare (Einaudi, 2016) raccoglie numerose vite, che il mare ha sì portato ma anche disarcionato, sballottato, dannato. È un viaggio tra biografie di emigranti in cui però c’è anche Gianmaria con il suo sguardo ricco, calmo, che non ha paura.
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E in fondo al mare, in fondo al mare profondo
Ci lascio il canto mio che non consola,
Per chi è partito e si è perduto al mondo
In fondo al mare, in fondo al mare profondo
Gianmaria aveva molti amici e questi ora fan cantare la sua sirena, la quale “abita il mare scuro che non scandaglia” ed è musa che li accomuna: si sono riconosciuti nello stesso passo, nella stessa modulazione di voce e nella stessa spinta a raccontare viaggi struggenti, tenerezze lontane e occhi negati al pianto. Giuseppe Cederna, che tanti palcoscenici ha condiviso con Gianmaria, restituisce in questo spettacolo la voce dell’amico, che fa realmente capolino in lacerti accennati di canzone, ma anche quella scheggiata di coloro che la voce non possono averla. Giorgio Gallione, altro amico, cura la regia, traspone a teatro una sonorità commossa ma tagliente in grado di colpire anche davanti al sipario.
Erri De Luca nella prefazione al libro saluta il suo “socio, compare, fratello che non mi è capitato in famiglia e ho cercato intorno”, rammentando con emozione che lui e Gianmaria “appartengono al vasto meridione del mondo, eravamo fatti per incontrarci in qualche piazza affollata e forse ci eravamo già sfiorati”.
Da questa parte del mare è uno scambio di battute tra sponde che sono muti giacigli; è il susseguirsi di notti sveglie e gelate; è Lampedusa madre matrigna, ma scritta in un modo diverso. E allora c’è Babasunde che ha perso il suo nome, la ragazza di colore rattrappita dal freddo che aspetto il treno per Torino, il violinista di Scutari Rrock Jakaj, Tinochika detto Tino che si aggrappa allo sguardo di una donna sconosciuta.
Cederna, dal palco del Gobetti, ci regala il suo amico e le onde che ha visto, i forestieri per scelta e per forze di causa maggiore, il coro umano che è diventato canzone. E da questa parte di terra continuiamo a ricordarlo, intensamente.