L’edizione 2017 di MITO SettembreMusica ha davvero spalancato cuori e polmoni: la Natura s’è fatta spazio tra tante partiture e ispirazioni diverse. Vi raccontiamo alcuni dei live – a nostro giudizio – più interessanti della kermesse.
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_di Giorgia Bollati
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QUATTRO PAESAGGI
Anna Clyne: This Midnight Hour
George Gershwin: Concerto in fa per pianoforte e orchestra
Antonín Dvořák: Nel regno della Natura, ouverture op. 91
Maurice Ravel: Daphnis et Chloé, suite n. 2 per orchestra
Quattro paesaggi, quattro visioni del mondo: ambientazioni diverse, luci diverse. Questo è quanto viene concentrato nelle quattro composizioni scelte per inaugurare la stagione 2017 di MITO, mostrando tutta la potenza dell’associazione di musica e di immagine. Archetipo di tale connubio può risultare “la donna nuda che corre folle nella notte pura” di cui ha scritto il poeta spagnolo Juán Ramón Jiménez per raccontare la musica: nelle quattro esecuzioni si assiste dunque a una fuga, una folle corsa dalla natura per giungere tra le braccia sicure della musica. A partire da This Midnight Hour (debutto italiano) di Anna Clyne, la quale si ispira proprio a questa poesia, si intreccia un fil rouge fatto di esplorazione della natura alla ricerca dell’intimità della musica, del legame profondo con essa, fino al contatto con la bellezza più primordiale.
Nell’amato brano di Gershwin, l’energia e il romanticismo risuonano tra le pareti del Teatro Regio dipingendo a tinte accese le strade di una città americana, seguendo le abili mani dell’ottimo pianista Jean-Yves Thibaudet, il quale condivide la tastiera del pianoforte con il direttore d’orchestra Ingo Metzmacher per eseguire magistralmente la ninna nanna d’amore Dolly suite di Fauré, fuori programma. Dalle note urbane, si passa ai paesaggi agresti e popolari di Dvořák, descritti con una melodia semplice ma di grande finezza, che invita a sognare per guardare da fuori lo spettacolo del mondo, così come fa Ravel, con la Suite n.2 dal balletto Daphnis et Chloé, utilizzando le sonorità più delicate e impalpabili per descrivere un immaginifico paesaggio greco, dove abita la fantasia del compositore più di quanto faccia la realtà.

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ACQUA E ACQUERELLI
Tan Dun: Eight Memories in Watercolor
Maurice Ravel: Jeux d’eau; Gaspard de la nuit
Franz Liszt: Vallée d’Obermann, da “Année de pèlegrinage”; Les jeux d’eaux à la Villa d’Este, da “Années de pèlerinage”; Venezia e Napoli, da “Années de pèlerinage”
Un pianoforte e l’abito lungo di Zee Zee, nulla di più sul palco della sala ovale del Conservatorio Giuseppe Verdi. Non esiste, infatti, scenografia più adatta a rappresentare la sonorità energica e placida dell’acqua, simbolo di forza, di vita e di inconscio: tra pennellate e spartiti, questo elemento originario e primordiale assume forme diverse, scorre animoso in torrenti e ruscelli o giace stagnante in specchi lacustri.
Prima composizione in cui si esibisce Zee Zee è Eight Memories in Watercolor di Tan Dun (prima esecuzione italiana), una raccolta di otto brani per piano che rappresentano piccoli quadri ad acquerello che seguono il moto ondoso in notturni liberi, echi debussyani e ispirazioni raveliane, i quali non si limitano a dipingere il flusso acquatico, ma si intrecciano ad esso e ne assorbono l’energia, perfettamente indossata dall’interprete, impegnata in una rappresentazione quasi drammaturgica. Zee Zee si fa, poi, tragica e melanconica immergendosi nell’incanto sottomarino di Ravel, di cui esegue lo zampillante Jeux d’eau e il fluttuante Gaspard de la nuit. Ammaliante, ancora, il passionale ulteriore struggimento incarnato dalla pianista cinese nel rappresentare gli immaginifici giochi d’acqua di Vallée d’Obermann, Les jeux d’eau à la Villa d’Este, e Venezia e Napoli composti da Franz Liszt.
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RADICI
Jean-Baptiste Barrière: Sonata in sol maggiore*
Pablo Casals: El cant dels occells*
Gioachino Rossini: Duetto in re maggiore per violoncello e contrabbasso
Luigi Boccherini: Duetto
Alfred Schnittke: Inno II
Niccolò Paganini: Introduzione, tema con variazioni di bravura su una corda sulla preghiera Dal tuo stellato soglio dal Mosè di Rossini; Fantasia
Un ritorno alle radici più ancestrali che, in un viaggio fatto di visioni istantanee, si muove lungo la linea del tempo: questo il tema del concerto di cui il Tempio Valdese si fa teatro, dal quale Ödön Rácz e Stephan Koncz accompagnano il pubblico in una discesa verso uno strato antichissimo e aurorale del suono, eseguendo, insieme, spartiti preparati per solisti. Partendo dalla barocca Sonata n.4 in sol maggiore di Jean-Baptiste Barrière, l’esibizione si innesta su modalità armoniche alle radici delle sonorità jazz e dell’improvvisazione moderna, per poi andare a intrecciarsi alle radici sacre del denso e profondo El cant dels ocells trascritto da Pablo Casals che annuncia la nascita di Gesù attraverso il canto di diversi uccelli.
Dai toni decisamente più classicheggianti il Duetto in re maggiore per violoncello e contrabbasso di Gioachino Rossini e la Sonata in do maggiore per violoncello e basso continuo di Luigi Boccherini, in cui il contrabbasso esce dall’ombra del suo statuto di contrappunto e torna alla radice del proprio ruolo: vero e proprio basso della sonata. Dalle fronde degli alberi e dalle melodie neoclassiche alle profondità delle caverne più oscure: dalle tenebre di sotterranei dimenticati, emerge l’eco dissonante di rimbombi rocciosi e ruscelli che scorrono in gole abissali, così come l’ha scritto Alfred Schnittke in Hymn II, diviso in due sezioni, delle quali una più bassa e una più acuta e stridente. Rácz e Koncz si rispondono in un dialogo tra archi fino all’ultimo brano in programma: un adattamento virtuosistico e ricercato scritto dal violoncellista di una parte di Dal tuo stellato soglio di Niccolò Paganini, tanto ben riuscito da trascinare i due artisti in un raggiante bis e poi fino in un osannato tris.

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PAESAGGI SPAGNOLI
Mohammed Fairouz: Concerto per violino e orchestra “Al-Andalus”
Manuel de Falla: Noches en los jardines de España, impressioni sinfoniche per pianoforte e orchestra
Maurice Ravel: Boléro
Terra magica e gitana, la Spagna è teatro di sogni apparsi al madrugar, nel momento a cui la tradizione attribuisce potere divinatorio, ma dalla impossibile dimensione estatica e intangibile che avvolge e appanna le visioni. Mohammed Fairouz ha raccontato, con la sua Al-Andalus, gli albori della ricchezza culturale di questa terra, con eroi dimenticati e sogni chimerici, rappresentando il volo di un Icaro tardivo, che danza, sotto le luci dell’Auditorium Rai Arturo Toscanini, con il violino solista Chloë Hanslip.
Più densa e folkloristica Noches en lo jardines de España di Manuel de Falla, tra notti profumate, danze lente o gitane, in un vero racconto, per spartito, dell’animo di una terra e del suo popolo, sensuale e caloroso. Ultima parte del concerto non poteva che essere il Bolero di Ravel, incanto ipnotico architettato secondo uno schema geniale che ripropone 18 volte il tema senza sviluppo diegetico, ma con il progressivo aumentare degli strumenti coinvolti in una danza sempre più sfrenata, fino alla violenta conclusione incalzante e collettiva, sotto la guida del direttore Andrés Salado.
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LUCI
György Ligeti: Lontano
Béla Bartók: Concerto per viola e orchestra Sz 120
Ottorino Respighi: Fontane di Roma; Pini di Roma
Bagliori, melodie e raggi di sole: il fil rouge di questo ultimo concerto magnificato al teatro Regio segue suggestioni leopardiane e germoglia in lontananza, durante viaggi ed esplorazioni nelle remote regioni toccate dalla rassegna di MITO 2017. Riccardo Chailly dirige energicamente la magistrale Filarmonica della Scala con i tempi lunghi e dilatati del brano di apertura: Lontano di György Ligeti, una composizione di echi cristallini con entrate dissonanti che annullano la percussione ritmica e si succedono in un continuum sonoro ipnotico che annebbia ogni riferimento spazio-temporale, fino all’increspatura vitale di un risveglio finale.
L’ingresso del passionale Julian Rachlin con il suo archetto segna il potente e delicato insieme Concerto per viola e orchestra di Béla Bartók, un monologo del solista, che musica un grande discorso sulla lontananza, contornato dai toni autunnali della melodia, languidamente fluttuante tra lirismo e tragicità. Apoteosi della bellezza sono stati, tuttavia, le composizioni di Ottorino Respighi, di cui la Filarmonica esegue Le fontane di Roma, zampillanti e trasparenti nella loro struttura complessa fino ai rintocchi lontani delle campane, nate dalla suggestione iniziale di una bionda studentessa lettone grazie alla quale il compositore prestò attenzione alla fontana di Valle Giulia.
A chiusura del programma, poi, l’orchestra propone I Pini di Roma dello stesso autore, alti, possenti, illuminati dal sole, eterni come la loro città e indifferenti alle inquietudini dei tempi moderni, che sfilano sul palco del Regio in tutta la loro magnificenza.