Siamo andati ad assistere all’evento di wrestling femminile organizzato dalla Revolution Championship Wrestling a Barcellona: praticamente come entrare in una puntata delle serie tv “Glow”. Un’occasione importante per incontrare le campionesse mondiali di questa disciplina e riflettere insieme a loro sulle difficoltà (e sui vantaggi indiretti) dell’essere una donna e una lottatrice oggi.
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_di Roberta D’Orazio
Nel 1891 il National Police Gazette organizzò il primo campionato di wrestling femminile in una taverna di Bowery, Manhattan. Tra le moderne gladiatrici che parteciparono, spiccava il nome di Cora Livingston. Cora era relativamente minuta se paragonata a colleghe come Joshie Walford e Laura Bennet. Dopo aver conseguito il titolo di campionessa, iniziò a girare per fiere e teatri insieme a suo marito, anche lui lottatore. La coppia offriva l’allora cospicua cifra di 25 dollari a qualsiasi donna fosse in grado di resistere 10 minuti contro Cora.
A volte tuttavia anche gli uomini presenti decidevano di tentare, invano. Un reporter dell’epoca definisce entusiasmante lo spettacolo, ma i detrattori erano già pronti a dire la propria. Una corrispondente dal Daily News scrisse: “Mi piange il cuore vedendo che queste donne, che portano il vizio impresso sul proprio volto, possano cadere così in basso.” Anche John C. Mayers, uno dei massimi esperti del tempo, approvò le donne come fans ma non come lottatrici, definendo le loro performance un vero e proprio crimine atletico.
Per quanto la situazione sia poi cambiata nel corso del secolo, non si può dire che il wrestling femminile non porti con sé un certo carico di controversie. Da una parte su questa disciplina si è di certo risvegliato un certo interesse grazie anche al successo televisivo della serie Glow, ispirato al non altrettanto fortunato programma degli anni 80 da cui è stato tratto nel 2012 anche un interessante documentario. Dall’altra per le professioniste di questa attività sportiva non sempre è facile far riconoscere il proprio valore. Ne incontriamo un’interessante rappresentanza presso il Casinet d’Hostafrancs a Barcellona, durante l’incontro annuale tra campionesse provenienti da diversi Paesi promosso dalla Revolution Championship Wrestling.
“Vieni a vedere Glow dal vivo”, recita il cartellone. Ed è difficile resistere a un invito del genere.
La sala non è eccessivamente piena, ma il pubblico è animato e nonostante quasi nessuna delle atlete parli spagnolo, l’interazione con i presenti è intensa.
Sin dalla spettacolare entrata in scena della stella giapponese Su Yung che si sfila un vestito degno di Emily in La Sposa Cadavere di Tim Burton, l’accoglienza è calorosa. Tuttavia, nonostante l’incoraggiamento popolare, l’atleta nipponica non riesce a battere la furia della messicana mascherata, Kobra Moon. Nel secondo combattimento, una spettacolare body press aerea permette alla francese Camille di mettere al tappeto con l’eleganza che contraddistingue la sua nazionalità secondo le convenzioni l’avversaria Kelly, portoghese.
La femminista che è in me sta giusto pensando che il wrestling maschile consente agli uomini di non godere di una forma fisica perfetta, mentre queste ragazze somigliano a veri e propri miracoli estetici secondo i canoni della bellezza pubblicitaria, quando a smentire questa osservazione è l’entrata in scena della campionessa locale, Dragonita. La lottatrice catalana, di certo la più sostenuta dal pubblico, concentra il proprio carisma in uno splendido corpo con alcuni chili che gli standard contemporanei considererebbero, volgarmente, di troppo. La sua performance sportiva è strabiliante, e culmina con la sconfitta della scozzese Debby Sharp.
Nello scontro successivo un’altra scozzese, Sammii Jayne, risulterà la più odiata dagli astanti, per via della sua attitudine provocatoria. Verrà sconfitta da Hana Kimura, una creatura minuta in grado di incarnare perfettamente il paradosso nipponico dell’alternanza tra un’attitudine composta e una furia cieca. Bellissima e aggraziata, con un costumino bianco e rosa, non risparmia spassose grida isteriche e movimenti apparentemente sconnessi, che tuttavia la porteranno alla vittoria.
Dopo una breve pausa, uno dei momenti più attesi: lo scontro tra la campionessa in carica della RCW World Cup Santana Garrett, bruna e meravigliosa nel suo outfit verde speranza, così in linea con il messaggio di positività che il suo personaggio si propone di diffondere, e la sua migliore amica, la bionda canadese in latex rosa, Chelsae Green. La Green entra in sala accompagnata da un brano glam rock, la Garrett la attende sul ring. Fino alla fine, ignoriamo chi delle due possa prevalere sull’altra, data l’intensità del combattimento, ma sarà la Garrett infine a mantenere il suo titolo.
L’evento principale chiude l’evento in maniera spettacolare: le Owens Twins, due gemelle che in maniera perfettamente sincronizzata eseguono le stesse mosse, si aggiudicano il riconoscimento ufficiale come campionesse in duo della RCW, battendo la messicana Thunder Rosa e la giapponese Kagetsu in un combattimento stellare in cui intervengono anche Hana e Dragonita. Un tripudio di stili differenti, proposito del resto comune a tutto lo show, come ci racconterà Jose Fernandez, parte dell’organizzazione dell’evento.
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Essere donna e lottatrice oggi: ne parliamo con due campionesse
Sarà Santana Garrett, dopo lo show, a raccontarci il suo punto di vista come atleta.
“È la terza volta che vengo in Spagna, ma ho viaggiato per tutto il mondo grazie al wrestling, sono stata in Giappone, in India, in Cile.
Sono nata e cresciuta in America e il pubblico statunitense è molto diverso da quello giapponese. I fan americani sono molto animati e partecipativi, gridano molto. È una cosa che adoro! Ma poi vai in Giappone e le persone stanno così attente, quasi in contemplazione, ed è una sensazione incredibile.”
Sulla propria passione per il wrestling, Santana spiega:
“Sono cresciuta in questo ambito, mio padre era un lottatore diventato poi un promoter, l’ho sempre visto combattere per seguire i suoi sogni, adesso è il mio turno di fare lo stesso. Sono la Wonder Woman del wrestling, voglio diffondere un messaggio di positività tra le giovani donne e sembra funzioni. Soprattutto negli ultimi anni credo che le donne abbiano fatto un fantastico lavoro per migliorare se stesse e per avere la possibilità di mostrare le proprie capacità.”
Una funzione dunque in un certo senso educativa del wrestling, condivisa anche dalla messicana Thunder Rosa che racconta:
“Il mio personaggio è nato mentre lavoravo come operatrice sociale in un centro di adolescenti con problemi mentali e dipendenza da droga e alcol e cercavo qualcosa che mi trasportasse al di fuori dalla realtà per tirare fuori tutta l’aggressività che ricevevo ogni giorni dai miei pazienti e volevo che fosse qualcosa di positivo, così ho iniziato ad allenarmi.
La katrina (ovvero il teschio messicano) nasce dopo uno show in cui un promoter mi ha fatto notare che sarebbe stata una buona idea rendere omaggio alle mie origini, ma per me ha anche un significato più profondo perché molte delle persone con cui lavoravo non riuscirono a sopravvivere, si suicidarono. Nonostante questo, io li ho conosciuti in un momento in cui stavano comunque provando a incamminarsi verso la felicità, e ogni volta che salgo sul ring voglio rappresentare questo. Loro mi hanno conosciuto quando stavo iniziando, ora viaggio per il mondo, vado in televisione. Tra i miei adolescenti di allora, molti di quelli che ce l’hanno fatta mi contattano tramite Instagram per dirmi che sono una fonte di motivazione per loro affinché possano ricordare che non importa quanto lontano sia l’obiettivo: lavorando duro si può raggiungere.”
Ma com’è essere una donna e una lottatrice? A quali pregiudizi e difficoltà si espone chi intraprende questa carriera?
“Io ho avuto la fortuna di iniziare negli Stati Uniti e non in Messico. Lì ho avuto la possibilità di realizzare i miei sogni, cosa che non sarebbe successa se fossi rimasta nella mia patria, dove il wrestling femminile non avanza. È molto difficile riempire una arena con uno show di questo tipo, perché non ci viene dato il giusto riconoscimento come atlete, come donne e come lavoratrici. Sfortunatamente alcune donne hanno contribuito alla cattiva fama del wrestling femminile.”
Penso, in questo caso, a Lillian Ellison, meglio conosciuta come The Fabolous Moolah, campionessa e promotrice accusata di essere la matrona dello sfruttamento della prostituzione e dell’abuso sulle lottatrici. Il pensiero si distoglie da sé quando Thunder Rosa parla di quelle che sono invece le sue fonti d’ispirazione, aggiungendo che “c’è molto da imparare dalla maggior parte delle donne presenti in questo mondo.” Per lei almeno, aggiunge, è sempre stato così.
E a proposito di cose da imparare, come Santana Garrett, anche Thunder Rosa ritiene che il Giappone sia un’ottima palestra, un luogo dove “gli insegnamenti sono molto rigidi, ma questo ti aiuta a riconoscere i tuoi limiti e a superarli.”
Limiti a volte imposti da un’erronea percezione del proprio corpo.
“Se guardi il mio merchandising, vedrai che mi piace molto mostrare il mio corpo perché lavoro molto per ottenere questi risultati e ho il diritto di farmi fotografare o mostrarmi in una certa maniera. Al tempo stesso mi piacerebbe essere un esempio per altre donne o bambine che vogliano fare qualcosa che non sia contemplato dallo status quo e questo è molto difficile. molte delle mie fan avevano problemi di sovrappeso, o di autostima, o problemi mentali. Io e il mio staff abbiamo da poco caricato un documentario su Youtube e io stessa faccio videblogging e il messaggio è sempre lo stesso: bisogna credere in se stessi, perché altrimenti può credere in ciò che cerchi di proporre. È qualcosa che va oltre le barriere linguistiche: se riesci a trovare la tua maniera personale per crescere, puoi creare connessioni con le persone, perché il pubblico ha bisogno di questo: di credere in te. ”
Uomini? Vittime del maschilismo
Di fronte a tanta vibrante profondità, porto a casa con me delle riflessioni che non mi aspettavo potessero conseguire da un incontro di wrestling.
Non posso né voglio negare le differenze tra uomo e donna – i nostri corpi sono distinti, lo è persino la conformazione del nostro cervello – ma desidero oppormi strenuamente all’idea che esista un divario innato per quanto riguarda potenzialità e possibilità. Sin da bambine ci viene trasmesso un codice comportamentale traboccante di stereotipi che influisce tanto sulla nostra formazione personale, quanto sull’immagine dell’altro. Tuttavia, tra le tante mostruosità che avvelenano la percezione di noi stesse e del mondo, ci viene riconosciuto un vantaggio, ovvero quello di poter esprimere le nostre emozioni. Tutte, certo, a eccezione della rabbia, l’unica che di contro è concessa agli uomini.
In questo paradosso, entrambe le parti sperimentano frustrazione e una forma (auto)imposta di violenza. In generale però questo diritto sociale tipicamente femminile è un affare non da poco. Possiamo piangere senza che nessuno lo ritenga strano. Possiamo tremare, contenute a stento entro i confini del nostro corpo, quando raccontiamo di quella volta in cui ci siamo stupite per ciò che abbiamo imparato a fare, di cui non credevamo di essere capaci.
Mi è capitato qualche mese di intervistare dei lottatori. Alla domanda “Com’è nato il vostro personaggio?”, le risposte sono state incredibilmente interessanti, ma di ordine perlopiù tecnico, il racconto di sé veniva in secondo piano, appena accennato tra le righe, complice la legge del kayfabe che marca la separazione tra l’atleta e il suo alter ego sul ring. Le donne interpretano in maniera differente la norma. Pur rimarcando l’idea che sono altro rispetto al personaggio, ne narrano la genesi dall’interno, di come le esperienze personali ne abbiano modellato la forma.
Se tuttavia credessi che gli uomini sono privi di sentimento alcuno, starei cadendo io stessa nella trappola che il maschilismo mi ha teso, di cui sono potenziale vittima almeno quanto loro. Credo piuttosto sia stato messo in atto, nei secoli, un tranello educativo, finalizzato a rendere gli esseri umani più facili da controllare poiché ridotti a uno schema da seguire.
Uno schema difficile da vincere, rispetto al quale risultano ancora più lodevoli le iniziative volte a valorizzare l’infinito ventaglio delle possibili differenze. Ben venga dunque, in tal senso e in molti altri, il wrestling femminile.