Dall’immaginario del famoso film dei fratelli Coen, una serie che riesce a ritagliarsi uno spazio tutto suo ridefinendo i confini tra humor e drama.
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_di Gianmaria Tononi
Il Minnesota, il realismo di vite impossibili, protagonisti incredibili, “This is a true story”, l’umorismo nero. Tanti tratti dei Coen sono ripresi dalla serie TV, diretta citazione ricollocata nello stesso universo ma spostata di qualche metro: lo stile è lo stesso, al punto che ci si aspetterà di vedere apparire Steve Buscemi per almeno un piccolo cameo. Fortunatamente non succede, la serie ha una forza ed un equilibrio travolgenti e non ha certo bisogno di aiuto per decollare, sebbene i rimandi siano tanti.
In ognuna delle tre stagioni troveremo storie diverse in cittadine tutte vicine, tutte interlacciate. Scenari che si fondono in un’unica grande depressione che coglie i cittadini del Minnesota abbandonati a loro stessi e alle sfide che la vita gli propone, siano un noiosissimo lavoro d’ufficio o un cadavere da occultare, un francobollo da recuperare o una famiglia mafiosa da sgominare.
Il fuoco si mantiene sui personaggi incredibili che si riescono a creare in tutta questa normalità apparente, alcuni di loro avrebbero da soli la capacità di reggere un’intera stagione e se non lo fanno è perché non sono gli unici a poterlo fare, viene da chiedersi se una delle grandi sfide della sceneggiatura non sia proprio equilibrare i tempi dedicati a così tanti protagonisti assolutamente trascinanti.
I “cattivi” sono tanto attraenti quanto i “buoni”, la vita reale non sceglie mai la gentilezza e la retta via come uniche generatrici di intrattenimento, e tutto ciò che accade è semplicemente una storia raccontata. I protagonisti non hanno un fine massimo per il quale si realizzeranno, non ci sarà una morale, non vincerà chi è stato portato su un piatto d’argento ed eletto a eroe della storia e non perderà il più viscido, aberrante e insopportabile essere umano che ci hanno lasciato conoscere.
Le storie sono fini a sé stesse, così come lo sono nella vite straordinarie di queste ordinarie persone, al contrario di come lo dovrebbero essere nell’immaginario nativo dei fratelli Coen.
I riferimenti sono incrociati, si cita la seconda stagione nella prima e si vedono personaggi con storie comuni, parenti comuni, personaggi che ritornano quando meno ce lo si aspetta e prendono in mano una stagione. Gli attori mescolano i grandi nomi ai meno conosciuti, senza minimamente abbassare mai il livello.
Ci sono tre categorie di protagonisti: i criminali, i poliziotti, i civili.
I primi possono essere viscidi e insopportabili, ripudianti esseri umani che la regia ci spinge ad odiare addobbandoli di particolari insopportabili, oppure sottospecie di anti-eroi pronti a spaccare tutto, con abilità ed intelligenza superiori a tutti, in grado di trionfare senza rispettare la legge e trascinare dalla loro parte lo spettatore.
I secondi sono incredibili e tenaci, capaci di seguire il loro istinto per portarci a storie incredibili e risolvere casi dei quali noi sappiamo già tutto e riuscendo comunque a sorprenderci, oppure sono calchi esatti del poliziotto americano mangia-ciambelle, ottuso e carico d’armi, incapace di carpire il minimo indizio e con l’unico obiettivo di risolvere il caso il più velocemente possibile senza farsi domande.
Gli ultimi sono i più imprevedibili, mostrano tutti i lati della vita: ci troviamo di fronte a personaggi che passano dalla massima noia immaginabile ad uno stato di grazie dove sembrano aver realizzato le loro reali capacità, che dalla partenza sembrano senza scrupoli e si riducono poi ad essere in realtà i cuori migliori che si possano trovare. Enigmatici al punto giusto, tanto difficili da prevedere quanto lo è il futuro.
Una serie antologica, un capolavoro per fotografia e regia, storie talmente fini a sé stesse che i protagonisti possono morire nelle scene più inutili, senza l’esaltazione di un fine ultimo che dia senso alla loro scomparsa.