[REPORT] Le note nomadi di Bombino

Al Locomotiv è andata in scena un’altra delle esibizioni ipnotiche del Mark Knopfler africano.

Dopo essere stato “scoperto” intorno al 2009 dal filmaker Hisham Mayet, il quale di fatto registrò il suo primo album durante i festeggiamenti di un matrimonio (Group Bombino – Guitars from Agadez, vol. 2, pubblicato su Sublime Frequencies) Bombino ha girato il mondo, venendo spesso anche in Italia, portando con sé sonorità e testimonianze lontane, intrecciate in una miscela elettrica. E questa sera, con la pioggia di maggio, al Locomotiv è andata in scena un’altra delle esibizioni del tuareg guitar hero.

Come nelle migliori tradizioni berbere, siamo accolti dal rito del thè, servito da due occhi sorridenti nascosti dietro a un tagelmust blu scuro, quel velo di cotone che siamo abituati vedere indossare dagli uomini tuareg. Non saremo nel deserto del Sahara, ma un the caldo alla menta risulta essere un vero toccasana anche in questo sabato sera padano, umido e uggioso.

La leggenda, che tanto leggenda non è, racconta che Bombino cominciò a suonare in esilio, nei primi anni 90, dopo l’ennesimo tentativo di rivolta, il popolo Tuareg venne dichiarato nemico dello stato del Niger, numerose famiglie scapparono, in particolare la famiglia di Bombino si rifugiò in Algeria. Qua trovò una chitarra con la quale cominciò a suonare imitando le canzoni della tradizione Ishumar, la musica della resistenza Tuareg.

«C’è la lotta, c’è la fuga, c’è la ribellione e c’è l’esilio. C’è il francese e c’è l’inglese. Ci sono i Led Zeppelin e Jimi Hendrix»

È una tradizione quella Tuareg che mette insieme personalità molto interessanti oggigiorno, come Bombino appunto, ma anche Toumast e Tinariwen, nomi che compongono un nuova tradizione musicale: Tichumaren, il blues del deserto.

“Azel” (l’ultimo album, registrato a Woodstock nel 2016), “Nomad”, “Agadez”: le tracce che compongono gli album registrati in studio scritti da Bombino trovano posto nella line up di questa sera, sono frustate di chitarra, sono basi (poli)ritmiche ipnotiche e costanti, con il contributo di Youba Dia al basso e del batterista Corey Wilhelm, sono un muro di suoni elettrici estatici.

– Lui poi è bellissimo! – Così esordisce Giulia, fan della prima ora del chitarrista africano. E in effetti, la presenza scenica del nostro è importante, alto, sinuoso, vestito con una magnifico completo di cotone blu cobalto e con un paio di baffetti “tirabaci”. È un tutt’uno con la chitarra, che danza insieme al suo corpo, muovendosi con eleganza e una morbidezza quasi lisergica.

La verve chitarristica di Bombino sul palco è inimitabile, è nervosa e precisa, tecnicamente ineccepibile, eppure noi di sotto, pubblico adorante, sappiamo che non è solo questo che lo ha trascinato per centinaia di palchi al di fuori del Niger, in tutto il mondo, Bologna compresa.

C’è la lotta, c’è la fuga, c’è la ribellione e c’è l’esilio, ci sono il padre e la madre, ci sono il Tamasheq (lingua dei ribelli Tuareg) c’è il francese e c’è l’inglese, c’è “Tar Hani” e “Amidinine” e  ci sono i Led Zeppelin, Jimi Hendrix e l’imzad. E tutti questi mondi sono catalizzati catalizzata in un’ora e mezza di esibizione musicale pura.

Sono pochi gli scambi verbali con il pubblico, nulla è raccontato, ma tutto viene “comunicato” e “sentito”, attraverso la sintesi riuscita di tradizioni musicali lontane tra loro (Azel, il titolo dell’ultimo album significa proprio “radici“), cerniera ideale tra nord e sud, sintesi che mira verso il futuro, senza nascondersi nei ricordi malinconici di un passato avverso, come popolo e come essere umano, ma librandosi verso un futuro di speranza.

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