Il presidente della Biennale della Democrazia sale in cattedra per aprire la seconda giornata di incontri e conferenze, presso il Teatro Carignano, alla ricerca di valori e disvalori nella società di oggi.
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_di Miriam Corona
Con i ringraziamenti personali e un dono da parte del sindaco di Torino Chiara Appendino, Gustavo Zagrebelsky ha inaugurato la sua lezione nella seconda giornata della manifestazione della Biennale della Democrazia. “La parola che non c’è” è una ricerca sui significati delle parole e il peso che gli si dà oggi, articolata con un discorso che Zagrebelsky ha redatto per la conferenza.
Ogni epoca ha la sua parola d’ordine: nell’Antica Grecia, tra i tanti “motti”, spiccava la paidéia, ovvero l’educazione dei più giovani che comprendeva ogni aspetto della formazione: quello della cultura (le doti filosofiche e oratorie dei Greci echeggiano tutt’oggi) e quello fisico, sottolineato specialmente dal modello della polis di Sparta: infatti l’onore di un uomo si vedeva soprattutto nelle battaglie e nella sua volontà di sacrificio della patria. Tutto questo a formare l’aretè del fanciullo: il valore.
Zagrebelsky si interroga sul funzionamento delle parole d’oggi: “le parole che usiamo sono comunicative?” ovvero, “contengono scambi e assunzioni di responsabilità?”
Nell’Antica Roma vigeva la norma della pietas, la devozione, il rispetto e il riguardo che si offriva agli Dei, alla patria e ai propri cari; “norma” poiché era un dovere che, in caso non venisse rispettato, trasgrediva le leggi della iustitia.
Nei tempi più recenti, più di preciso nel Futurismo, i principi erano la velocità, il coraggio e l’automobile (all’epoca da considerare strettamente come sostantivo maschile): grazie a quest’ultima e al suo sviluppo, è stata ricostruita l’Italia del dopoguerra.
Lo scopo delle parole, o meglio del loro significato, è la comunicazione, termine dotto che deriva da “munus”, latino per “dono” (basti pensare anche a parole come munifico che denota una persona generosa). Con il prefisso –co indica qualcosa di reciproco, dunque pone la responsabilità su tutti i partecipanti alla comunicazione. Così essa è letteralmente uno scambio di doni, proprietà e, in senso figurativo, di punti di vista: comunicando ci arricchiamo a vicenda.
Non più il trittico di antichi valori greci del Vero, del Bello e del Giusto, qualità che si completavano a vicenda, bensì Danaro, Potere e Fame.
Da questo presupposto Zagrebelsky si interroga sul funzionamento delle parole d’oggi: “le parole che usiamo sono comunicative?” ovvero, “contengono scambi e assunzioni di responsabilità?”. Come per i Greci e i Romani, anche noi oggi abbiamo dei termini specchio della società; eppure, al contrario dei valori antichi, sono dissociative, cioè si distaccano dal loro autentico significato per dare un alone ideologico positivo.
D’altronde chi direbbe male di questioni serie come riforme, business o componenti sociali o politiche su cui si basa oggigiorno la nostra esistenza? Sono quasi dati per scontato poiché rientrano per definizione in quel gruppo di elementi che esistono solo grazie a discorsi e parole messi insieme sensatamente e che, in tal senso, comunicano. Non solo, ogni antonimo alle cosiddette parole odierne quali competizione, sviluppo, successo, innovazione, accelerazione inneggia all’alienazione, alla mediocrità e allo stress.
Questo fenomeno viene paragonato da Zagrebelsky a un’onda generata dai nostri stessi simili ai quali i giovani d’oggi devono o almeno provano a fronteggiarla. Quest’onda ha spazzato via le conoscenze di un tempo, riconosciute come ingombri anacronistici, portando invece raccomandazioni e rapporti con figure “importanti” per la propria ascesa in quella che Zagrebelsky chiama, sarcasticamente, la “società del calcetto”. Esempio lampante è l’involuzione del rapporto tra studenti e ricercatori, una volta entrambi dediti alla cooperazione in nome della conoscenza e dell’erudizione, il cui scopo oggi sembra quello di prevaricare gli “sfigati”, “Un’altra delle parole usate ampiamente oggi”, dice con rammarico Zagrebelsky.
Dunque sono questi i significati comprensibili che giungono alle nuove generazioni; non più il trittico di antichi valori greci del Vero, del Bello e del Giusto, qualità che si completavano a vicenda, bensì Danaro, Potere e Fame: è qui che risiede il male oggi, nell’eccesso e nella sregolatezza, le tanto odiate pleonizia (avidità di beni) e filotimia (cupidigia di fama). La forza che risiede nella fama è ciò che rende l’uomo debole e condizionabile a tal punto da modellare le relazioni sociali e alimentare la maldicenza: più cresce in un singolo, più gli altri sprofondano innescando un processo inarrestabile. Ecco la forma violenta della fama, la gloria, il leopardiniano “diritto all’orma” (E fieramente mi si stringe il core a pensare come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia, La sera del dì di festa). Questi tipi di atteggiamento, analoghi alla competizione, al successo e all’accelerazione, sono abbaglianti mentre dovrebbero essere lumicini d’intelligenza nel buio: è da questo che bisogna partire alla ricerca dell’armonia, giusta collocazione reciproca che mette insieme suoni diversi, costruendola giorno per giorno e riconoscendo quanto valga la pena l’attesa dell’alba.
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All pics by Miriam Corona