Lo scorso sabato la rassegna Blender ha portato al Locomotiv Club Nathan Fake: il musicista e producer inglese ha presentato il suo ultimo disco “Providence”.
di Erika Fiumi – La serata conclusiva di Blender – la neonata rassegna di musica elettronica curata dal Locomotiv Club in collaborazione con Radio Città del Capo e Disco d’Oro – è arrivata a chiudere questa prima settimana di primavera. Dopo aver ospitato i live di Clap! Clap!, Romare e Jessie Lanza, sabato scorso è stata la volta dell’ ex-enfant prodige della contea di Norfolk: Nathan Fake. L’apertura della serata è stata affidata agli After Crash, duo diviso tra Bologna e Londra a cui è riuscita la magia di riempire il locale sin dalla sua apertura. Tutto inizia sulle parole de Le conseguenze dell’amore, magnifico film di Sorrentino, con cui il protagonista descrive l’esistenza della tanto familiare “setta degli insonni”. La musica degli After Crash è un concentrato di contaminazioni che rendono possibile il passaggio dall’introspezione alla leggera catarsi, tra scie post-rock, ambient ed elettronica freschissima. “Lost Memories”, il loro album d’esordio, è uscito a gennaio 2016. Bologna se lo ricorda come se fosse ieri, e la voglia di sentirlo live si concretizza ancora una volta sotto palco. Come dire, quando l’opening act perde quella che dovrebbe essere la sua accezione e diventa uno show centrale a tutti gli effetti.
Scatta la mezzanotte e la serata passa tra le mani di Nathan Fake. Sono ormai trascorsi undici anni dal disco d’esordio “Drowning In A Sea Of Love”, uscito per la Border Community di James Holden nel 2006. Pezzi come “The Sky Was Pink” (che ne hanno segnato il successo, anche grazie al remix dello stesso Holden) sono ormai parte di un universo lontano. Fake non si è mai ripetuto, votandosi sempre più alla sperimentazione.
Il live è quasi totalmente incentrato sul nuovo album, Providence, fresco d’uscita per Ninja Tune lo scorso 10 marzo. Un set con una partenza decisamente diesel: i primi pezzi hanno indotto una specie di trance, un abbandono lento al suono coi battiti rallentati, poi ecco il risveglio. Un’elettronica sincopata e tagliente come lame, che non arriva mai ad esplodere ma solo a ferire graffiante. L’ultimo lavoro segna l’uscita di Nathan Fake da un blocco creativo durato oltre 5 anni, e l’ansia accumulata la si può sentire tutta in tracce didascaliche come “HoursDaysMonthsSeasons”. La cosa curiosa è che l’ispirazione sia rinata da un Korg Prophecy, un synth vintage uscito a metà degli anni ’90 che porta ovviamente con sé tutti i limiti del caso. È proprio intorno a questi limiti che Nathan Fake ha giocato in tutto il disco, e quindi anche live. È un’esplorazione dei confini, un vedere fino a che punto la terra può essere calpestata e dove invece inizia il cielo. I visual accompagnano tutto il set con geometrie in continua trasformazione, come pixel che si staccano dalla forma per tornare sostanza.
Poco meno di un’ora e mezza di live che ha riportato sul palco un Nathan meditativo quanto viscerale. D’altronde, anche un enfant prodige deve fermarsi e maturare, probabilmente deludendo le aspettative di qualche Peter Pan.
Gallery a cura di Alice Blandini