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_di Raffaella Ceres
Una grotta di sassi o trasparenze? Muri inespugnabili o strati da scavare per arrivare al cuore del materiale più pregiato? Appare così il palco del Teatro Quirino di Roma: una scenografia elegante quanto deliziosamente provocatoria , così come lo è lo spettacolo che vede protagonisti sul palcoscenico Neri Marcorè, Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini. Quello che non ho ( titolo che trae spunto dall’omonimo brano di De Andrè e Bubola) è un esempio di teatro canzone che nella durata di un’ora e mezza fonde magistralmente l’arte di due maestri italiani: Fabrizio De Andrè e Pier Paolo Pasolini.
L’urgenza della riflessione, la metamorfosi antropologica dell’Italia vinta dal fascismo contemporaneo del consumismo, così come già quaranta anni fa previsto da Pier Paolo Pasolini, sono il focus di un momento teatrale che non vuole semplicemente raccontare una storia, che non cerca una morale da tramandare oralmente, che non giudica né vuol essere spiegato. Rappresenta invece uno spettacolo originale che come un album di vecchie fotografie mostra “l’Italia agli italiani” fra temi sociali, politici ed ambientali. Solo che al posto delle foto troviamo i brani meravigliosi di De Andrè ed estratti degli scritti di Pier Paolo Pasolini (ricordiamo fra gli altri Scritti Corsari e La Rabbia), interpretati in maniera magistrale dai cantastorie protagonisti sul palcoscenico.
“I beni superflui rendono superflua la vita”
Sedie. Tante sedie riempiono il palcoscenico. Perché? La sedia vuota, che occupa uno spazio ben preciso nello spazio, ci insegna lo psicodramma e la psicologia della Gestalt, si utilizza quando il protagonista deve dire delle cose ad un altro che egli immagina occupare lo spazio offerto dalla sedia. L’elemento concreto, ma vuoto, rappresentato dalla sedia si presta ad essere riempito da tutto ciò che il protagonista vede in chi tale spazio occupava: è uno spazio dove si posano le percezioni, le proiezioni, le paure, i desideri del protagonista. Forse il progetto originale di chi ha pensato tutte quelle sedie in scena non era proprio quello ma, l’effetto empatico che scaturisce la tale impiego è incredibilmente incisivo e merita di essere osservato.
In fondo Neri Marcorè instaura con il pubblico un dialogo aperto ma anche con gli stessi artisti e con le istituzioni e con la società intera. Si interroga e ci interroga sul perché la voce di un grande profeta contemporaneo come Pasolini sia stata inascoltata, persino denunciata, ed oggi invece sia altrettanto drammaticamente attuale nel suo dolore per un’Italia che dell’ipocrisia verbale ha fatto pane quotidiano. Lo spettacolo di Giorgio Gallone in scena ancora fino al 5 Marzo presso il Teatro Quirino di Roma, convince ed entusiasma per la semplicità con la quale racconta storie dolorose, per l’ironia con la quale Neri Marcorè sa mescolare perfettamente i colori scuri e le sfumature più chiare di parole che pesano come i delitti di chi questa Italia ce la sta portando via. Convince per le denunce ambientali e sociali che puntano il dito verso la faciloneria con la quale parliamo e sparliamo di rom, tecnologia, immigrati. Sappiamo usare la parola emergenza senza averne ancora compreso il significato.
C’era una volta Papà Topo Neri Marcorè che racconta ai suoi topini, i talentuosi musicisti Giua, Pietro Guarracino e Vieri Sturlini, la storia dell’Italia del 2000. In questa esilarante parte dello spettacolo vengono beffeggiati tre concetti chiave: la moviola, le rughe in faccia e l’immigrazione. Sono elementi delle due facce di una stessa medaglia che Pier Paolo Pasolini e Fabrizio De Andrè hanno saputo analizzare meglio di molti altri. Non permettiamo alle lucciole di scomparire e non smettiamo di volare, non arrendiamoci all’abbassamento del gusto, non lasciamoci ipnotizzare da temi come la decrescita e lo sviluppo sostenibile. Viaggiamo piuttosto in direzione ostinata e contraria. Lo dobbiamo a noi stessi e alla bellezza del nostro tempo.