Alla sua prima partecipazione alla rassegna torinese, Antonio Campos presenta “Christine”, opera che ripercorre la dolorosa vicenda umana e professionale della giornalista americana che si tolse la vita in diretta tv nel 1974.
Sul palco, oltre al direttore del festival Emanuela Martini, anche la produttrice Melody C. Roscher, che ha ricordato l’impegno straordinario per la realizzazione di un film “fatto con il cuore”.
di Alberto Vigolungo – Verso la metà degli anni Settanta, l’attenzione di gran parte dell’opinione pubblica americana è orientata allo scandalo Watergate: giornali, radio, televisione non fanno che rendere noti i dettagli di un’inchiesta che rapidamente travolge i piani alti della politica, fino a toccare la presidenza Nixon. La vicenda, che da un lato sottolinea la capacità di un certo giornalismo investigativo di essere indipendente dalle strutture del potere, di lunga tradizione negli USA, lascia emergere dall’altro i tratti di una nuova stagione dell’informazione, votata esclusivamente all’audience, all’insegna di un sensazionalismo esasperato che caratterizzerà i media nei decenni successivi.
«In linea con la politica del canale di darvi le ultime in fatto di sangue e budella – e a colori – state per assistere a un altro tentato suicidio…»
Christine Chubbuck è una giornalista trentenne che lavora per un’emittente locale. In redazione è riconosciuta per la sua competenza e professionalità: crede fermamente nelle possibilità di un giornalismo che sappia guardare in faccia alla realtà sociale, con un occhio di riguardo per le storie che offre il territorio. Christine segue il lavoro con un’attenzione maniacale, talvolta sedendo per ore davanti alla telecamera alla ricerca della posa perfetta e curando di persona le singole fasi di montaggio. Ma a questa figura attenta e ambiziosa sul piano professionale se ne accompagna un’altra, più fragile ed insicura, nei rapporti affettivi.
A casa, Christine trascorre la maggior parte del tempo in camera sua, circondata dai feticci della sua adolescenza. Ed è proprio nell’ambiente privato che si manifestano gli aspetti più controversi della sua natura: emerge il carattere di una donna sola, che non riesce a vivere appieno la propria femminilità, costantemente ossessionata dalla paura del fallimento. Le tensioni con il suo direttore Mike, che vuole imporre una strategia di rilancio dell’emittente basato sulla cronaca, in particolare quella nera (in linea con un generale impoverimento nei contenuti), assieme alla scoperta della malattia, gettano Christine nel vortice della depressione. Le frequenti discussioni con il direttore sfociano in un duro litigio. E’ lo scontro tra due visioni opposte, l’una a difesa di un approccio critico della televisione alla realtà, l’altra volta ad un cambiamento radicale per incontrare le esigenze del mercato: un muro contro muro dalla quale Christine uscirà devastata e che sancisce una delle cause del suo gesto tragico ed eclatante.
“Abbiamo lavorato duramente per rappresentare la storia di una personalità complicata, mettendoci tutto il cuore e l’anima che potevamo.”, ha confessato la Roscher, intervenuta poco prima della proiezione.
In effetti, data la complessità del soggetto, il rischio di banalizzare molti tratti della vicenda era concreto: non è il caso di “Christine” che, nell’ottima interpretazione di Rebecca Hall, offre il ritratto autentico di una donna divisa tra amore per la verità e il desiderio di soddisfare le prerogative dei colleghi, senza mai rinnegare le proprie convinzioni. Decisamente riuscita la sceneggiatura di Craig Shilowich, costruita sulla misurata alternanza tra momenti di dinamismo e intraprendenza e momenti di sofferenza e rassegnazione: uno schema che riflette il conflitto di due identità, alla lunga insostenibile per la protagonista.
Poco prima di sparare il colpo che la ucciderà, Christine Chubbuck, sguardo fisso alla telecamera, dichiara: “In linea con la politica del canale di darvi le ultime in fatto di sangue e budella – e a colori – state per assistere a un altro tentato suicidio.”
Queste parole, unite alla spiazzante fissità del volto in primo piano, vengono pronunciate con la stessa freddezza della canna d’acciaio che la donna si punta alla tempia: tutto avviene nel giro di pochi secondi. Così, la realizzazione di una morte scioccante, trasmessa in contemporanea su migliaia di schermi, assume il significato della denuncia di un sistema informativo che fa della spettacolarizzazione dell’orrore il suo punto fermo.
Christine non sceglie di uccidersi nella sua camera, ma in diretta tv: il suo gesto non si pone soltanto nella sua individualità, ma lancia un messaggio forte, di opposizione nei confronti dei modelli emergenti; nondimeno rivendica un’autonomia di pensiero. In quell’atto estremo Christine manifesta una presa di posizione decisa, puntando il dito contro la crescente tendenza dell’informazione televisiva alla rappresentazione del sangue e della violenza, fine a se stessa, che trova espressione nei canoni della tv spazzatura, fino allo splatter. Più di quarant’anni fa, il caso Chubbuck rilanciava il dibattito sulla questione etica della televisione: la sua è anche la storia di un dramma intellettuale, in un’epoca che prelude al massiccio annientamento dei contenuti nel sistema mediatico e che già ne mostra i primi segni, con tutte le sue conseguenze.