Inside: il platform dei nostri incubi

Erede spirituale del celebre Limbo, Inside è un videogioco che ha come punto di forza la capacità di stupire in continuazione, scardinando con equilibrio le regole del genere platform.

di Matteo Billia — Non esiste un’introduzione narrativa, o un tutorial che spieghi brevemente l’obiettivo di gioco e le meccaniche dello stesso. Ci si rende subito conto di star giocando a un platform (per chi già non lo sapesse), con alcune dinamiche molto particolari. Insomma, si tratta di uno di quei titoli dove tutto ci viene fatto vivere sulla nostra pelle, spesso frustrandoci con numerosi Game Over prima di riuscire a capire le meccaniche dei piccoli, ma tutto sommato semplici rompicapo a cui verremo sottoposti. Si tratta perlopiù di trovare soluzioni di tipo fisico, spostando oggetti, aprendo e chiudendo passaggi a tempo.

La trama è semplice, e quanto mai opprimente: veniamo catapultati senza spiegazioni in un mondo in cui gli esseri umani vengono trasportati in massa in grossi camion che li rilasciano all’interno di laboratori scientifici, asettici e claustrofobici. Non sarebbe giusto dire di più, dato che uno dei punti forza del titolo è la sensazione di scoperta che accompagna ogni piccolo progresso.

Fin dall’inizio del gioco sembrano essere chiare le caratteristiche e i limiti che il genere platform impone. Ma basta che queste vengano scardinate (come viene fatto non senza un certo equilibrio) in alcuni momenti cruciali per accrescere lo stupore nel giocatore. Basti pensare come tra il piano in cui corre il nostro personaggio e i livelli di profondità retrostanti , ci sia una perfetta continuità, spesso percorsa, infatti, dagli altri personaggi non “in gioco”. La suddivisione di piani in parallasse tipica dei platform, viene qui totalmente eliminata, facendo percorrere al nostro personaggio ambienti di gioco vasti e profondi. I suoi percorsi, come quelli della telecamera (fluidissima ed elegante), sono studiati come un lunghissimo piano-sequenza, all’interno del quale, variazioni di inquadratura e avvenimenti accidentali si susseguono prestabiliti.

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La grafica è semplice, d’impatto, molto “poligonale”. E questa scelta di essenzialità pervade tutte le scelte adottate in ambito di gameplay e sonoro. La longevità è molto breve, ma adatta all’esperienza che viene offerta. Sebbene si possa finire il gioco in tre ore, prendendosela con tutta calma, si ha l’impressione che non sarebbe dovuto durare di più. La totale mancanza di materiale extra, non fa storcere il naso.

Il sonoro è fortemente immersivo: il vento, le foglie degli alberi, il respiro del ragazzo, i passi sulle foglie, l’abbaiare dei cani hanno una grande capacità descrittiva. Sebbene il giocatore non abbia controllo libero sulla telecamera, i suoni che arrivano alle nostre orecchie danno la continua impressione che, nascosta dal fondale di gioco, nelle profondità inaccessibili al protagonista, si trovi una realtà misteriosa, di cui cerchiamo continuamente di capire la natura.

Possiamo quindi dire che la curiosità è la molla principale che fa proseguire il giocatore, in un mondo di gioco dove fino alla fine non è mai ben chiaro cosa stia succedendo e perché. Quest’ambiguità di fondo regala momenti di rara bellezza, che innalzano il titolo in questione ad un’esperienza estetica superiore alla media, e che si merita in tutto e per tutto, per equilibrio compositivo, cifra stilistica e innovazione, di essere definito un’opera d’arte.