Le palme selvagge e il Vecchio: due vicende apparentemente slegate l’una dall’altra, si amalgamano nel vortice esistenziale del capolavoro di William Faulkner.
di Matteo Billia – Harry e Charlotte si incontrano in casa del marito di lei, soprannominato Carogna. Tra i due nasce una passione selvaggia, che porta Charlotte ad abbandonare il marito e le due figlie per vivere l’ebbrezza di una vita immorale, instabile e in povertà, che ha l’amore come centro di tutto, una fiamma che secondo lei bisogna saper alimentare per non farla spegnere. Questa vicenda è intervallata da quella di un evaso involontario, che diventa tale perché strappato dalle catene dalla furia spaventosa del Mississippi ( il vecchio, appunto). Tuttavia decide di adempiere ai suoi compiti iniziali, offrendosi di difendere una sconosciuta incinta a costo della propria vita, navigando sopra un fiume in piena che sembra ricoprire tutto il mondo, trasformando questo in un non luogo metaforico, in cui i rari approdi e gli incontri sulla via del ritorno alla società (e al carcere quindi), sono fantasmi emersi dalla nebbia, sopra un orizzonte “piatto e lucido come una lama”.
Le palme selvagge di William Faulkner è un libro sorprendente. Per alcuni sarebbe l’opera più potente e riuscita dell’autore americano. Al tempo stesso però, approcciarsi per la prima volta a Faulkner risulta essere destabilizzante. Si rischia di rimanere fino a metà libro con la puzza sotto il naso, senza riuscire a comprendere dove voglia arrivare l’autore. Il romanzo in questione infatti presenta l’alternarsi di due racconti (di cui si accennava poco fa).
Le palme selvagge e Il vecchio, senza apparenti punti in comune, se non alcune assonanze tematiche (o perfino musicali, direbbe Kundera), portano in poco tempo a farsi l’idea che non ci sia nulla di sbagliato nell’interrompere la vicenda di Harry e Charlotte, per seguire quella di un evaso sul fiume del Mississippi (è il fiume ad essere il vecchio in questione) alle prese con un’inondazione e il salvataggio di una donna, e metaforicamente con una sorte avversa che non fa che peggiorare la sua condizione sociale.
Entrambe le storie, nella loro evoluzione (o meglio, degenerazione), arrivano ad innalzarsi a modelli universali di dolore e stoicismo nei confronti dell’esistenza.
Lo stile di Faulkner, sulle prime un po’ verboso e ostico, risulta costituire una spinta inaspettata alla lettura del romanzo. Dopo un po’ si capisce il suo gioco, si imparano ad apprezzare i suoi periodi lunghi pagine intere, i suoi flussi di coscienza, il suo presentare lo stesso fatto sotto sfaccettature e punti di vista differenti, fino a correre il rischio di innamorarsene. Si passa dal diffidare della sua artificiosità, ad apprezzare questa costruzione spigolosa, piena di archi acuti e guglie, che ferisce perché è dura come i contenuti che presenta.
Faulkner è un autore che non si annulla. Non mette la storia davanti a tutto, ma lo stile, quindi se stesso. E come dichiarava Céline riguardo la propria scrittura, si è portati a vederlo come un artigiano fenomenale, che gioca con le parole come note di canzoni tristi.