In una calda serata di settembre, i The Brian Jonestown Massacre suonano di nuovo a Bologna, a distanza di quattro anni dal loro ultimo concerto.
di Filippo Santin – È così strano assistere ad un concerto dei The Brian Jonestown Massacre, al giorno d’oggi. Soprattutto se si hanno impresse in mente le scene di “Dig!”, documentario del 2004 che racconta attraverso immagini di repertorio l’amore-odio fra i Dandy Warhols e, appunto, i Brian Jonestown Massacre. Lungo il film possiamo assistere ai “deliri” di Anton Newcombe, leader di questi ultimi, mentre si barcamena fra risse sul palco e monologhi lisergici.
Ovviamente, come capita spesso in questi documentari che raccontano la vita di una rockstar, ne esce saltuariamente un’immagine per così dire “caricaturale”: quella tipica della rockstar persa in un turbine – oramai, direi, anacronistico – di autodistruzione.
Se tuttavia accantoniamo per un istante certi tratti che hanno marcato la figura di Anton Newcombe, troviamo un musicista autentico: e per autentico intendo, a mia personale visione, un “uomo che ama davvero ciò che fa, fino in fondo, e vive per questo”. Probabilmente bastava dire che Anton Newcombe è un vero artista, con tutte le fortune e sfortune del caso.
Lo si è potuto notare durante il concerto bolognese della sua band, che ha avuto luogo sabato 3 settembre al Zona Roveri Music Factory.
Un’ora prima dell’inizio del concerto si incontra già una buona affluenza di pubblico. Gran parte dei presenti, magari per omaggiare lo stile della band, indossa vestiti da rocker anni Sessanta-Settanta (con alcuni risultati forse, citavo prima, “caricaturali”, ma non è poi un fattore così importante). I Brian Jonestown cominciano in orario: alle 22 e 30 sono sul palco. Ordinati, senza fronzoli: Anton, pur essendo leader della band, si posiziona alla sinistra del pubblico, quasi nascosto; al centro c’è Joel Gion, “tambourine man” di lunga data, con la sua aria assorta.
Si diceva prima, a proposito di “Dig!”, in cui veniva ritratta – anche – la figura di una rockstar che a volte si smarriva e lottava con il proprio ego. A distanza di molti anni, il cantante sul palco sembra così diverso: non solo nell’aspetto che, con folte basette canute, ricorda Neil Young; ma anche nell’atteggiamento sul palco.
Suonano, per così dire, “diligentemente” i Brian Jonestown. Ogni nota sembra al proprio posto, attraverso ricorrenti momenti di “muro sonoro”, caratteristico di quello shoegaze a cui il gruppo si è sempre ispirato.
Le canzoni storiche si susseguono, da “Never Ever” a “Servo”; ma ad aver reso partecipe il pubblico più di tutte è stata “Anemone” che, a questo punto, potrebbe essere considerata la canzone più rappresentativa della band. C’è posto per gran parte del repertorio; e sarebbe strano il contrario, visto che il concerto, come già preannunciato giorni prima, ha avuto la springsteeniana durata di quasi tre ore. Un tempo folle, in un’epoca dove la nostra soglia dell’attenzione è ai minimi storici.
Anton, fino a quel momento di poche parole, ironizza:
“Siamo stati a dei festival in cui gli altri gruppi suonano appena un’ora… Fingono di andarsene, per poi tornare sul palco… Ma con quello che paghi il biglietto, dovresti sentire suonare qualcuno per un bel po’…”.
Il pubblico è concorde.
Certo, tre ore di concerto – soprattutto con il caldo ancora presente a inizio settembre – potrebbero essere persino troppe. Ma se c’è qualcosa di bello nei Brian Jonestown Massacre visti sul palco, è che a loro non importa: vogliono soltanto suonare. E in uno scenario simile, non c’è posto per la superficiale apparenza di questi tempi moderni. Parafrasando il titolo di un loro album: a questo punto, bisogna ringraziare Dio di sembrare pazzi.