[INTERVISTA] Andrea Serio: immagini silenziose, impalpabili, fragili

Alla scoperta della poetica dell’illustratore toscano, tra gli alberi, il mare e una moleskine.

di Federica Giallombardo  –  Andrea Serio è un illustratore carrarese (classe 1973) legato alla città di Torino per formazione e riconoscimenti: si è diplomato in Illustrazione all’Istituto Europeo di Design (IED), ha vinto il primo premio al Torino Comics del 1998 e il Premio della Critica Torino Comics 1999 e i suoi disegni sono stati esposti alla Fiera del Libro. Questa non è che una piccola parte: dal 1992 al 2002 ha pubblicato per le Edizioni d’Arte Lo Scarabeo i Tarocchi di Dante (testo di Giordano Berti) e i Liber T – Tarocchi delle Stelle Eterne (testo di Roberto Negrini); nel 2012 è stato pubblicato in Italia e in Francia il suo primo romanzo grafico, Nausicaa – L’altra Odissea (in collaborazione con lo sceneggiatore Bepi Vigna), ispirazione per uno spettacolo teatrale; nel 2014 ha disegnato la cover per il disco di John De Leo, Il Grande Abarasse.

Nella sua biografia si legge: “Superdilettante – al mio commento “che modestia!” ha risposto: Superdilettante è un termine coniato da Sottsass, e lo usava per definire se stesso. Quindi, in realtà, usarlo a proposito di me stesso è un atto di immodestia da parte mia” – semi-espressionista, natural-Mattottiano, cronicamente malatosano […] nutre ricambiata avversità per i computer(s) e digita sulla tastiera, come faceva Truffaut, con un solo dito”.

Ma era meglio capirne di più; così in occasione della sua ultima breve mostra, Litoralia (tenutasi presso le Pescherie della Rocca Estense – Lugo di Romagna – dal 25 al 30 luglio), ne ho approfittato per porgli alcune domande, assecondando la mia curiosità, a cui lui ha risposto con estrema gentilezza.

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Parlami di te: la tua storia, la tua formazione.

“Disegno da quando ho ricordo di me. Da bambino scarabocchiavo continuamente e, per la prima ed ultima volta, avevo le idee molto chiare: da grande avrei fatto il pittore (o il giardiniere, ma questa è tutta un’altra storia). Avrei avuto uno studio, con il cavalletto, i colori, i pennelli, le tele e tutto il resto, e avrei dipinto per sempre. Qualcuno avrebbe comprato i miei quadri e sarei così sopravvissuto alla povertà, tipica degli artisti più autentici.
In qualche modo, questa faccenda del pittore me la sono portata dietro per il resto della mia vita. Quando avevo più o meno vent’anni e frequentavo il corso di illustrazione allo IED di Torino, il mio insegnante di fumetto era Massimiliano Frezzato. Un giorno, poco prima dell’esame finale, mi disse: “Se provo a immaginarti fra dieci anni, non riesco a vederti illustratore puro e nemmeno fumettista, però posso immaginare i tuoi disegni esposti da qualche parte.” Ero ancora troppo giovane, ma si era già evidenziata una difficoltà nell’inquadrarmi in un genere preciso. A scuola ci parlavano di comunicazione, di pubblicità e mercato editoriale, di nuovi media, mentre io restavo intimamente ancorato a quella mia fascinazione infantile. A differenza di molti miei compagni di corso, che avevano progetti e gusti già definiti, io assorbivo tutto, come una spugna, indistintamente. Questa ambiguità, che avrebbe potuto portarmi a perdermi (dopotutto viviamo in un mondo in cui ci insegnano che solo la specializzazione ci permetterà di trovare spazio), si è invece rivelata un punto di forza. Oggi, che si tratti di mettermi alla prova su un manifesto, la copertina di un disco o di una rivista, un mazzo di tarocchi, una storia a fumetti, un libro per bambini o un biglietto della lotteria svizzera, per me non fa molta differenza; ho la mia chiave interpretativa, me la cavo tecnicamente, conosco le regole dei diversi linguaggi: questo, unitamente al bisogno di sentirmi sempre libero di fare e distruggere, mi basta per portare avanti la mia piccola storia lavorativa. Con questo non intendo dire di essere adattabile ad ogni genere di commissione, al contrario, quasi sempre cerco di piegare ogni richiesta al mio modo di intendere le immagini e di vedere le cose. Fortunatamente per me, quello che faccio solitamente funziona.”

Torino è stata la tua casa durante il periodo dell’università. Cosa ti è rimasto di Lei?

“Torino è stata la mia casa per quattro anni. Per me che avevo meno di vent’anni e venivo da una piccola realtà provinciale affacciata sul mare, ritrovarmici catapultato è stato come fare un triplo salto mortale con avvitamento. Il trauma da ambientamento è durato meno di un paio di mesi: è bastato che imparassi a conoscere la città con i suoi tesori e i suoi riti, per innamorarmene perdutamente. Il fascino di Torino sta forse nel suo non mostrarsi mai troppo, nel suo voler apparire sempre così discreta a tutti i costi. La sua è una bellezza folgorante perché inaspettata. Chi non è mai salito a Superga per godersi lo spettacolo del tramonto, o non ha mai attraversato il centro in una mattinata di sole, o non ha fatto una passeggiata da Piazza Castello fino alla Gran Madre in una sera di primavera, quando l’aria è così dolce e la città così indescrivibilmente bella che ti si stringe il cuore, non potrà mai capire cosa intendo.”

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Nausicaa: come è nato il progetto?

“Quando Bepi Vigna, storico autore bonelliano e creatore di Nathan Never, mi telefonò per parlarmi della sua idea per una graphic novel, attraversavo il periodo più complicato della mia carriera, un momento di grande confusione e di preoccupante immobilità. Quella proposta inattesa fu come una mano che mi veniva tesa e alla quale mi sono aggrappato con tutte le mie forze. Nausicaa è una libera rivisitazione della storia del personaggio omerico, intesa da Vigna come prima tappa di un ideale viaggio alla scoperta delle figure femminili mitiche della cultura mediterranea. Un progetto che mi ha tenuto impegnato per molti mesi, vero e proprio banco di prova per me che non avevo mai lavorato a un fumetto di quella lunghezza, con una tecnica che stavo ancora sperimentando, motivo per cui mi sono trovato a dover risolvere in corsa i mille problemi dovuti all’inesperienza. Ho messo in quelle pagine tutto quello che allora avevo nella testa e nelle mani: la passione per la storia antica e per l’arte moderna, un certo gusto per gli effetti di luminismo e per i volumi “morbidi”, i ricordi infantili di un’Odissea televisiva, la dichiarata ammirazione per il lavoro di Lorenzo Mattotti e Sergio Toppi. A distanza di anni, tendo a vedere di quel lavoro tutti i difetti, più che i pregi, ma gli sono profondamente grato per avermi messo di fronte ai miei limiti, costringendomi ad affrontarli, e per avermi portato fortuna.”       

 

Nei tuoi disegni la natura predomina. Soprattutto gli alberi: la tua personalissima tassonomia.

“Diceva Ettore Sottsass: “Quando non sai che cosa fare, mettici un albero. Va sempre bene”; in questa affermazione si ritrova condensata quasi tutta la mia idea di “arte”, che si basa su una concezione estetica quasi antica, o comunque rivolta al passato, ma con una certa dose di leggerezza. Disegnare alberi è una delle cose che mi riesce meglio e quella che preferisco fare in assoluto, da sempre: pini marittimi, cipressi, ulivi, palme, querce, salici piangenti, alberi da frutto. Da ogni luogo che ho visitato ho portato con me il ricordo di una particolare vegetazione: la macchia mediterranea, la vegetazione mista e lussureggiante della Liguria e della Francia del sud; quella dura e selvatica dell’Italia meridionale, quella più ordinata della mia Toscana e della Romagna; quella fitta, imponente e buia dei boschi di abeti sulle Alpi svizzere e valdostane. L’albero è una forma semplice e complessa allo stesso tempo, cresce secondo una geometria precisissima che viene regolarmente tradita e, pur cambiando forma continuamente, resta comprensibile a tutti. È vivo eppure immobile. È abitabile. Se sei un disegnatore, ti permette di giocare con le linee, con l’intreccio, con i volumi. Ti concede la sua ombra. Nella chioma di un albero è possibile rifugiarsi, nascondersi. Penso a Calvino, alle prime pagine del suo Barone Rampante…”

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Se penso ai tuoi disegni, penso all’azzurro. Che valore ha il colore nelle tue opere?

“È un elemento sul quale ho investito moltissimo, soprattutto agli esordi, quando cercavo di costruire immagini che attirassero immediatamente l’attenzione dello spettatore. In quel periodo i miei disegni si basavano in buona parte sul colore: l’idea grafica di partenza quasi sempre finiva per essere sepolta dai numerosi strati (ai tempi usavo prevalentemente pastelli a cera) che rimodellavano le forme e i volumi. I bozzetti preparatori, che curavo a livelli quasi maniacali, andavano via via riducendosi più che altro a tracce; vaghi profili di soggetti e linee di suddivisione degli spazi, finché l’immagine ha iniziato sempre più spesso a prendere forma direttamente dal colore, seguendo un approccio alla lavorazione molto più pittorico. Solo negli ultimi anni, per una sorta di ribellione, di rigetto, o forse grazie a una maggiore consapevolezza dei miei mezzi, ho intrapreso l’esplorazione del bianco e nero, tornando alla cura del tratteggio e della linea. Oggi per me il colore ha un peso diverso, meno preponderante rispetto al passato. Credo di aver trovato l’equilibrio che cercavo. Intanto la tavolozza ha virato verso le terre e i grigi, mentre gli azzurri si sono fatti meno artificiali di un tempo. “

Tra i tuoi soggetti, tra la natura viva e morta, le donne: compaiono e scompaiono, ma sembrano le uniche a comunicare con gli altri soggetti, invece sempre presenti, nei tuoi disegni.

“Non mi è mai interessata particolarmente la figura umana. Da ragazzo sono stato uno studente vorace e onnivoro, ma abbastanza presuntuoso da trovare superfluo e troppo faticoso uno studio approfondito dell’anatomia. Anche per questo motivo iniziai a concentrare la mia ricerca sulle atmosfere e sulle luci, piuttosto che sui gesti e sulle espressioni; ho sempre trovato più stimolante raccontare un momento o suggerire uno stato d’animo attraverso la ricostruzione di un ambiente, tenendo il protagonista (quindi lo spettatore) dietro l’inquadratura, piuttosto che al centro della scena. Ciò ha fatto sì che il mio disinteresse nei confronti dei soggetti umani, o il mio voler scansare il problema, continuasse negli anni, alimentato dalla pigrizia. Ogni tanto però mi viene voglia di disegnare ritratti; solitamente ritratti femminili. Se i visi sono come paesaggi, in quello di una donna si scoprono sempre piccoli angoli misteriosi in cui è desiderabile perdersi.”

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Ho visto disegni spesso sulla tua moleskine; qualche volta su Facebook ne condividi le foto, con schizzi e riflessioni sull’ambiente che ti circonda. Trovo siano i tuoi momenti più intimi; mi ricordano il Notturno di D’Annunzio, ma con più scogli e pietre.

“Ho sempre buttato giù gli studi per i miei lavori su carta da fotocopie, ideale per chi rielabora sul tavolo luminoso, ma anche perché una risma da cento fogli costa veramente poco e io, soprattutto inizialmente, abbozzavo e stracciavo parecchio. Parallelamente, avevo la tendenza a riempirmi la casa di album da disegno di ogni tipo e misura, ma più per una questione di feticismo che per l’intenzione di usarli realmente (all’inizio di ogni anno compro anche il diario/planner moleskine nero piccolo, che comincio a usare da gennaio e abbandono regolarmente verso maggio o giugno, sempre per questa mia abilità nel lasciare le cose a metà).
Intanto, vedevo tutti questi artisti bravissimi riempire quaderni e quaderni di schizzi e pensavo che anch’io avrei potuto provarci, se solo avessi trovato il coraggio di aprire uno di quei tanti taccuini comprati e mai utilizzati, lasciati a prendere polvere su uno scaffale della mia stanza, e avessi iniziato a disegnarci sopra. Così un giorno l’ho fatto, ho cominciato; a distanza di circa due anni da allora, sono riuscito a finirne cinque o sei e ho ormai preso l’abitudine di portarne uno con me, ritrovando così il gusto per l’esecuzione all’aperto e per il disegno rapido, che mi hanno ispirato nuove soluzioni fino a modificare il mio disegno e il mio modo di lavorare. Di solito uso il moleskine classico, da appunti. La carta è buona, leggera e liscia, color avorio chiaro e ha “odore di carta”. Perfetta per la matita, adatta al pastello a cera e a quello a olio, per come li intendo io. Disegnarci sopra ti fa sembrare un artista serio.

Parlami della mostra appena conclusa, Litoralia. Come è stato allestire una personale? Aveva un tema?

“Si è appena conclusa a Lugo di Romagna una mostra di miei disegni, organizzata all’interno della rassegna di avanguardie artistiche Lugocontemporanea. Per me è stata la prima personale di un certo rilievo, sia per il contesto in cui si è tenuta, che per la quantità di materiale esposto; un’esperienza impegnativa quanto appagante. Istruttiva. In poco tempo ho dovuto imparare ad allestire uno spazio espositivo (le bellissime Pescherie della Rocca Estense di Lugo), a selezionare le opere, a presentarle, a immaginare un percorso visivo/narrativo e a piantare file di chiodi allineati. Il tema era dettato dagli organizzatori della rassegna, dedicata quest’anno al dramma dell’esodo dei migranti. Seguendo una serie di suggestioni, ho deciso che fossero dei paesaggi a raccontare il mio pensiero, porzioni di cielo e di terra affacciata sul mare, a ricordare il diritto alla vita e alla libertà, soprattutto alla libertà di sognare.

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Ecco quindi le nuvole, che amo e studio da tanto tempo, in tutta la loro anarchia pacifica, a simboleggiare i tanti popoli in movimento. Sponda tra mondi che si toccano, miraggio di salvezza, non più barriera, le mie coste disegnate volevano rappresentare anche l’ultimo probabile fotogramma apparso negli occhi di molti di quei disgraziati, prima di essere presi dal mare. Non avendo tempo sufficiente per preparare materiale nuovo, ho pescato da quello di repertorio illustrazioni originali comunque inedite e mai esposte prima in pubblico. Si tratta quasi esclusivamente di studi e bozzetti che forse non vedranno mai una forma definitiva: mi piaceva l’idea di mostrare il lavoro nel suo stato intermedio, che nella maggior parte dei casi è quello che preferisco, quando indecisione e scintilla appaiono ancora visibili e molta parte dell’immagine si presta alla libera interpretazione da parte dell’osservatore.”

Una domanda tutta per me: esiste forza nella delicatezza? È una domanda che mi pongo da un po’ di tempo; sta diventando un’ossessione, al punto che non mi interessa più parlare del senso della vita e della morte.

“Può esserci forza nella delicatezza? Mi verrebbe da rispondere di sì, potenzialmente, come pure nell’immobilità, nella leggerezza, nella nostalgia. Mi chiedo però se abbia senso, nel mio caso, porsi questa domanda: il mio segno ama restare impalpabile, le mie figure malinconiche non pretendono di apparire forti, le mie immagini silenziose non hanno quasi mai messaggi da lanciare. Semplicemente, si mostrano per come sono: fragili.”