Ringo Deathstarr: nel limbo dello shoegaze

In bilico tra lo spleen degli Smashing Pumpkins e il sound della Creation Records, la psichedelia onirica del trio americano prova a ritagliarsi il suo spazio nella scena rumorosa degli Anni Dieci. 

di Jacopo Lanotte  –  Austin, Texas. La terra del deserto e delle grandi città anonime dell’america profonda. Qui nascono i Ringo Deathstarr, che già dal nome dimostrano un’ironia sorniona e beffarda. Sono tre. Ma il fragore che producono attraverso l’uso massiccio di effetti dilatanti e una batteria che, quando è presente, non perde un colpo neanche per sbaglio, dimostra quanto molto spesso anche una scarna formazione sia capace di regalare un sound coeso, compatto ed etereo al tempo stessoSiamo nel 2016 ed è uscito a gennaio il loro ultimo album: “Pure Mood”. La loro storia però comincia già nel 2007, quando ancora l’onda del revival 90’s non aveva ancora raggiunto l’apice attuale. I contatti, sebbene il trio sia americano di nascita, sono tuttavia fin da subito con il mondo discografico e musicale inglese.

Dopo il primo e omonimo EP, nel 2011 escono infatti con “Colour Trip” su AC30 etichetta londinese, ampliando in breve la distribuzione con Noyes e Neon Sigh per Canada e Stati Uniti. Dalle chitarre acerbe e dal primo piglio punk (i brani non superano quasi mai i tre minuti di durata) i Ringo Deathstarr espandono progressivamente il loro sound che allarga l’orizzonte verso confini inizialmente sconosciuti. I brani si allungano e apprezzano sviluppi più elaborati pur mantenendo l’impronta scanzonata dei primi lavori.

L’Ep che più segna questa riflessione è sicuramente “God’s Dream” di due anni precedente all’ultimo lungo lavoro. “Sogno di Dio” già preannuncia una volontà da parte della band texana di prendere atto di quanto fare musica non sia semplicemente un disegno cromatico a tinte Anni Novanta spensierato e volutamente senza troppe pretese. Basti osservare la copertina del disco che vede la longilinea e simil-Bilinda Butcher (cantante e chitarrista di una delle band che forse rimane il riferimento di punta per i Ringo Deathstarr: i My Bloody Valentine) G.g. Alex puntare minacciosa un fucile verso l’osservatore.

Le tracce che si susseguono in questo lavoro sono forse le più articolate strutturalmente (ascoltando “Flower Power” si viene travolti da ritmiche sostenute e da uno sferragliare chitarristico di notevole intensità per piombare, a metà brano, in una dolce e soffice melodia dream-pop), ancor di più rispetto ai nuovi brani da qualche mese usciti su “Pure Mood”. E’ effettivamente un ritorno alle origini quello a cui si assiste nell’ultimo LP anche se, va detto, l’esperienza più matura e dura affrontata nel precedente EP, rimane e ritorna rimodellata (“Heavy Metal Suicide”, seppure abbia una forma-canzone più adatta a divenire un singolo da classifica, è memore di brani come “Chainsaw Morning” o “Nowhere”). Passo falso, che sembra riproporre meramente il sound degli esordi è invece il secondo “Mauve” (2012) che, tolti alcuni brani, dalla scrittura meno acerba, non fa che ripetere i colori e l’intensità del primo lavoro.

Come già accennato i Ringo Deathstarr probabilmente devono anima e corpo all’esperienza shoegaze della fine degli anni ottanta e dei primi anni novanta. Un “sound” ormai ascrivibile ad un cerchio di band internazionali sempre più ampio. Non a caso con “Pure Mood” raggiungono anche l’area estremo orientale, firmando con l’etichetta indipendente di Tokyo: Vinyl Junkie Recordings (mossa senz’altro intelligente dato che shoegaze e dream-pop sul suolo nipponico sembrano aver particolarmente affascinato gli animi malinconici dei giovani giapponesi).

Ma si ricordi bene la “Stella Morta di Ringo” appare sulla volta sconfinata del cielo texano, ovvero, sopra uno degli stati tra i più violenti e difficili d’America: G.g. Alex, Dustin Gaudet (batteria) e Elliott Frazier (chitarra e voce) ce lo rammentano a più riprese, sia nei suoni che nei testi. L’eco sognante dello shoegaze di matrice Creation Records sembra così infrangersi contro i muri sonori della scena americana alternativa contemporanea dell’epoca. I timbri vocali, i fuzz precisi e soffocanti, insieme alla linea ritmica potente e incessante sono frutto di quell’esperienza. Basti citare il nome di Billy Corgan e degli Smashing Pumpkins di Siamese Dreams e il gioco è fatto.

D’altronde, osservando il panorama delle band che in questi ultimi anni si stanno avvicinando a sonorità tipicamente primi anni novanta, il termine che più sembra definirne il sound potrebbe a ragione essere “revival anglo-americano alternativo”. E come quindi non parlare di manierismo? Difficile non accorgersene, i “Ringo” sono ancorati malinconicamente a quegli anni. Eppure… una rigenerazione è possibile. Anche in quest’ottica volutamente nostalgica. Certo non c’è il sapore della novità vera e propria, ma un turbine sonoro diretto verso un passato redivivo. Se lo sono chiesti gli stessi protagonisti di quell’epoca che infatti non hanno esitato a riformarsi (si vedano le reunion di My Bloody Valentine, Slowdive, Ride tanto per citare alcuni dei nomi più importanti).

Io stesso mi sono avvicinato alla band, ascoltandola su uno dei canali più attenti da anni alla scena alternativa mondiale: la radio americana con sede a Seattle, KEXP. Non è perciò scontato il fatto che loro, insieme a band come gli Stargazer Lilies (che guarda un po’ presentano una formazione per metà di provenienza giapponese) o i Cheathas, siano apprezzate e veicolate da un media di tale prestigio. Su questo non c’è da discutere. Il solco lasciato da quella tradizione che si fece innovativa rispetto al passato più per scelta stilistica-sonica che per vero rivolgimento dei canoni musicali, è e continua ad essere ripercorso e consumato. Ma la musica come imprinting emozionale e, i Ringo Deathstarr parlano soprattutto attraverso un linguaggio d’urto – lo shoegaze non è certamente un suono “cerebrale” – , si rinnova e ricrea autonomamente. In ciò penso quindi, non perderà, pur nella ripetizione di determinati canoni, la sua innata freschezza.