Biografilm Festival: Celebration of Lives!

Grandi titoli e grande storie per un festival che celebra il cinema… e la vita. 

di Valerio Greco  –  Con grande entusiasmo è appena cominciata la nuova edizione del Biografilm Festival – Celebration of Lives, come ogni anno tenuta presso la sede del Cinema Lumière della Cineteca di Bologna. Ormai tradizione dei giovani amanti del cinema bolognesi, anche quest’anno il festival – interamente dedicato ai racconti di vita e al cinema biografico e documentario – è arricchito i questa dodicesima edizione da tanti ospiti nazionali e internazionali come il sud-americano Gael Garcia Bernal e il fenomenale Luca Marinelli.

L’apertura del festival è avvenuta precisamente il 9 giugno presso L’Unipol Auditorium, con una serata di gala in cui il direttore artistico Andrea Romeo ha dato il benvenuto ai suoi ospiti e ha presentato la giuria del ufficiale, composta da personalità di spicco di vari settori della cultura: il presidente Hussaim Currimbhoy, programmatore dei documentari del Sundance Film Festival; il produttore Michael Goodridge della Protagonist Pictures; il regista polacco Michal Marczak; ancora Roberto Mancinelli, producer musicale per la Sony e l’attrice Margita Gosheva, madrina di quest’edizione di Biografilm.

Ma i protagonisti della serata sono stati anche i ragazzi volontari del Guerrilla Staff, il gruppo di supporto storicamente affiliato al Festival, che quest’anno conta più di duecento giovani iscritti, a testimonianza dell’impatto sempre più grande della manifestazione. Il tutto al fine di presentarci opere veramente molto ambiziose che spesso riescono non solo a centrare il punto, ma al tempo stesso farci scoprire delle realtà finora quasi totalmente sconosciute.

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Werner Herzog e la tecnologia 

Un viaggio alla scoperta delle meraviglie positive e negative di Internet è il film di apertura del festival, diretto dal Maestro Werner Herzog, Lo and Behold, Reveries of the Connected World, dove con maestria, originalità e ironia non molto dissimile dallo stile del programma televisivo Le Iene prende in esame sia cosa vuol dire vivere in un mondo dove l’Internet permette a tutti noi di vivere connessi l’uno all’altro – anche se talmente pervasivo nelle relazioni umane da diventare indispensabile alla vita sulla Terra, tanto che c’è anche chi vede nella fine della rete il tramonto della civiltà. Il documentario non parla realmente della tecnologia, ma degli uomini che oggi la studiano o che ieri ne hanno segnato l’evoluzione, dei pionieri e degli avventurieri del progresso.
Lo spettatore per la prima volta scoprirà sulle note di Das Rheingold di Wagner – ovvero la musica iniziale della teatrologia lunga 12 ore dei Nubelunghi il luogo a cui si fa risalire la nascita della rete, situato all’UCLA di Los Angeles, assieme al professore informatico Leonard Kleinrock, che racconta la trasmissione del primo messaggio on-line nel 1969: “LO”, ovvero “look and see”, “guarda e osserva” – che originariamente doveva essere il messaggio LOGIN, ovvero “accesso”, ma purtroppo per un blocco di trasmissione si fermò alla seconda lettera.

Si tenta per tutto il film di riflettere su questi temi, esplorando anche le zone marginali, più controverse, che ne mettono in luce le contraddizioni, spingendosi anche oltre, fino al punto di chiedersi: Internet arriverà mai a pensare  stesso?

Potenzialità anche negative, come la straordinaria intervista con il leggendario “Dio degli hacker”, Kevin Mitnick un tempo ricercato numero uno dell’FBI – perché fino al 1995 ha violato i sistemi informatici, telematici, telefonici e qualsiasi cosa fosse fatta di bit – e ci racconta che le falle di sicurezza, le debolezze delle strutture, non sono assolutamente i computer, gli automi, i firewall… Sono gli uomini stessi.
Interessantissima la questione riguardante le persone affette da sensibilità alle radiazioni elettromagnetiche causate dalle frequenze emesse, dalla rete e costrette all’isolamento. Anche quando tratta delle delicate questioni della dipendenza da videogiochi o della violenza che si espande online, Herzog riesce sempre a farlo senza moralismo, ma con umanità e interesse filantropico. Da sottolineare per gli esperti del settore la sezione dedicata alla descrizione da parte di Ted Nelson del concetto di “ipertesto”, che ci racconta come il linguaggio HTML abbia in realtà tradito la concezione originaria di ipertesto in rete, non sfruttandone appieno le potenzialità.

Herzog, interroga i suoi soggetti con questioni metafisiche assurdamente poetiche: può internet sognare stesso? Può un computer trovare l’amore? La speranza? Credere in Dio? – Da cult l’inquadratura allo stesso divertente e simbolica di un gruppetto di monaci buddhisti che passeggia con lo sguardo basso sugli smartphone.
Tutto questo genera un contrasto che fa molto ridere e pensare allo stesso tempo, porta i protagonisti all’estremo del nerdismo e si diverte ascoltandoli con lo stesso approccio avuto con lo scienziato de L’ignoto spazio profondo, quello delle autostrade spaziali tanto per intenderci. Lo spazio è sempre per Herzog qualcosa di molto affascinante, la scoperta che su Marte si può installare internet ma non può arrivare l’uomo, lo porta ad avere fiducia nel futuro.

L’Africa di Giulia Amati

Shashamane, ambientato in un villaggio etiope a 250 km da Addis Abeba, dove si parla di una comunità di afro-americani tornata a vivere nella terra dei padri, come viene cantata da Bob Marley. Un inedito capitolo della lunga storia della diaspora africana attraverso le voci di uomini e donne che dopo 400 anni dall’inizio della schiavitù, hanno lasciato l’Occidente per cercare la loro terra promessa. Shashamane, dopo la Palestina di This Is My Land… Hebron, è il secondo film di una trilogia sulla terra promessa diretto dalla regista di origine francese Giulia Amati.

Come ci racconta la regista:

“Il documentario è uno sguardo sulla comunità, ma dal suo interno. Oltre alle difficoltà di filmare da sola in un luogo remoto dell’Africa, la sfida più grande è stata farmi accettare dagli abitanti della comunità. Ho vissuto con loro, condiviso i loro pasti e le loro vite quotidiane, ho ascoltato le loro storie e raccontato la mia con onestà”

Gheddafi, la pecora nera

Non manca anche il primo delle dieci anteprime provenienti da tutto il mondo che concorreranno al Best Film Unipol Award | Biografilm Festival 2016 per il miglior film: parliamo di un film unico e coraggioso come The Black Sheep, dove questa volta i temi principali sono per primo il lavaggio del cervello da parte dell’ex regime di Gheddafi – che cercava di modellare il popolo a suo piacere – e la seguente guerra civile con protagonisti gli Amazigh, la minoranza libica di cui fa parte il protagonista Ausman. Quest’ultimo è il vero protagonista, che dopo alcuni viaggi all’estero come studente e le contemporanee rivoluzioni fallite nella speranza del cambiamento che purtroppo non solo non esiste, ma peggiorerà la situazione – tanto da diventare un’illusione simile al romanzo di Orwell, 1984 a causa dell’estremismo religioso e che lo costringe a nascondere il suo stile di vita moderno e libero, persino l’amore per la musica metal. Il suo ateismo, proibito aspramente nella religione musulmana – tanto da spingere anche all’esecuzione di coloro che lo sono – sarà al tempo stesso la sua salvezza da un mondo per lui ormai troppo stretto e insopportabile, assieme alla decisione di trasferirsi in Finlandia.

Il regista Antonio Martino – regista con un lungo passato sotto le due torri – ha rivelato, fra gli applausi finali del pubblico, che se non fosse stato per il protagonista Ausman, il suo progetto poteva non arrivare alla sua realizzazione, tanto che sembrava essere destinato a fallire. Un’opera veramente ambiziosa e riuscita, prodotta dalla bolognese BO FILM –conosciuto per la produzione e distribuzione di documentari, soprattutto inerenti su tematiche sociali.

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Così parlò De Crescenzo

Luciano De Crescenzo è il protagonista dell’indispensabile documentario Così parlò De Crescenzo, dove il pubblico viene catapultato alla scoperta di un grande uomo contemporaneo che, attraverso la sua vita, la sua opera e il suo pensiero, emoziona e trasmette tutta la potenza delle preziose qualità che più lo contraddistinguono: una mente geniale e un’infinita gioia di vivere. Il film, risultato di un lavoro di ricerca cominciato nel 2013 – da parte del pronipote Antonio Napoli e Serena Corvaglia – che con uno sguardo equilibrato e allo stesso tempo ironico ricostruisce la sua vita privata e professionale – grazie a fotografie inedite e clips dai suoi divertenti film come Così parlò Bellavista in una polifonia di talenti che hanno incrociato la sua strada: dall’amore con Isabella Rossellini al lavoro con Renzo Arbore e Lina Wertmüller, dalla scuola dell’obbligo frequentata con Bud Spencer all’amicizia con Marisa Laurito…

Il tutto non per celebrare, ma per tirare fuori il suo animo umano e sconosciuto, come quel De Crescenzo bello e grande amante, il tutto in modo spontaneo e quasi all’oscuro. In poche parole una persona unica con una stupenda capacità di sintesi – tanto da rendere più semplici delle cose complesse come la filosofia di Kant – che nessuno si sarebbe mai aspettato da un ex ingegnere dell’IBM.

Ma ma contro il cancro

Dalla filosofia, alla realtà con la pellicola protagonista del poster del festival di quest’anno: parliamo di Ma maTuttò andrà bene, un film che nonostante l’impossibile e cruda lotta contro il cancro da parte della sua protagonista Penelope Cruz – con un’incredibile prova attoriale che rimane impressa allo spettatore, anche perché è stata ripresa completamente calva – che nel film di Medem si divide essenzialmente in due parti: la prima è quella più dura e cruda, in cui il regista non risparmia molto allo spettatore, che si trova catapultato in un ospedale dalla luce bianchissima dove il mondo esterno sembra essere svanito; nella seconda ci si apre apparentemente alla speranza e appaiono i colori, simboleggiati dai fiori del giardino di Penelope.

Julio Medem, che ha presentato il film davanti al pubblico del Cinema Arlecchino, ci raccomanda di andare a vederlo senza pensare, liberi con qualsiasi giudizio e con priorità sugli occhi, “le idee vi verranno in un secondo momento quando uscirete dal cinema”.

La storia narra di Magdalena – detta Magda – un’insegnante che ha da poco perso il lavoro per via della crisi e che viene lasciata dal marito, un insegnante di filosofia. Le rimane solo l’amato figlioletto Dani, ma la sua vita è pronta a subire un nuovo dolore: il suo ginecologo, Julian, le diagnostica un tumore al seno, curabile, ma solo dopo aver affrontato un lungo percorso di chemioterapia. Durante questa fase, la donna conosce Arturo, un talent scout del Real Madrid che ha appena perso la moglie e la figlia. La vita di queste persone è pronta ad intrecciarsi inevitabilmente e a far sperare, per tutti, un nuovo inizio connotato da una ventata di felicità. Ma la scoperta di un secondo tumore mette di nuovo la donna di fronte a dolorose scelte, anche se la notizia di una nuova gravidanza le dà una nuova forza per affrontare l’incertezza che la aspetta nel futuro.

Eppure il film, nonostante le promesse iniziali, appare troppo distaccato dalla realtà, nonostante il regista voleva mettere l’accento sulla crisi economica che da anni attanaglia la Spagna, leggendo come una metafora la lotta della protagonista contro il cancro; purtroppo questo elemento manca completamente.

Non mancano nella programmazione prime nazionali titoli attesi da i più grandi fan, sia del cinema inglese e di quello amante di Cannes.

I, Daniel Blake – pellicola diretta da Ken Loach vincitrice della Palma D’Oro 2016 al Festival di Cannes – tocca nel profondo ed è un perfetto manifesto dell’era di Jeremy Corbyn e Bernie Sanders. La storia è quella di Daniel, un falegname di Newcastle upon Tyne di 59 anni, costretto a chiedere un sussidio statale in seguito a una grave crisi cardiaca. Il suo medico gli ha proibito di lavorare, ma a causa di incredibili incongruenze burocratiche si trova nella kafkiana condizione di dover comunque cercare lavoro – pena una severa sanzione – mentre aspetta che venga approvata la sua richiesta di indennità per malattia. Durante una delle sue visite regolari al centro per l’impiego, Daniel incontra Katie, giovane madre single di due figli piccoli che non riesce a trovare lavoro, anche lei stretta nella morsa delle aberrazioni amministrative della Gran Bretagna odierna, Daniel e Katie stringono un legame di amicizia speciale, cercando come possono di aiutarsi e darsi coraggio mentre tutto sembra beffardamente complicato.

Nel cinema di Loach, “pieno di poche risate ma molti fazzoletti” come ci dice il distributore italiano Valerio De Paolis, i suoi personaggi sono i volti presenti nelle code davanti gli uffici di assistenza sociale: individui uguali – neanche più persone – che si confondono nella mischia. Uno dei temi più importanti del film è l’analfabetismo digitale, che gli rende tutto più complicato – dato che ormai la burocrazia di questi tempi passa anche da Internet – non a caso Loach è uno dei pochissimi registi inglesi a girare su pellicola 35mm. Contro il sistema sia nella filmografia e nella realtà per prendere in contropiede il mondo della pirateria informatica – e al tempo stesso quello dell’elitismo culturale – decise di mettere su YouTube alcuni dei suoi film, visibili – quasi – in tutto il mondo. Dove il digitale è simulazione, Daniel è ancora capace di provare compassione e una solidarietà che facilmente conquisterà lo spettatore in sala.

In contemporanea allo Shanghai International Film Festival, See you in Texas, l’opera prima di Vito Palmieri nell’ambito del Biografilm Festival-International Celebration of Lives, all’interno della sezione Biografilm Italia. La storia è quella di Silvia e Andrea, una coppia di Roncone, in Trentino nella valle del Chiese. La loro vita è diversa da quella dei coetanei, pur amando i locali e i social network perché gestiscono una fattoria: si occupano di cavalli e suini e hanno scelto di dedicarsi completamente a una vita all’aria aperta. Ma mentre Andrea è più legato a quel luogo, Silvia che ha la passione per la disciplina equestre del training sogna di andare in Texas, la patria della monta western. Proprio quando si presenterà per la giovane l’occasione di allenarsi in un ranch in America, sarà difficile per lei scegliere tra il restare e il partire. Le loro giornate sono scandite da una routine implacabile, che loro accettano perché amano gli animali e la vita all’aria aperto.

Il film è dato da un incontro casuale con il direttore della fotografia Michele D’Attanasio – autore inoltre della fotografia di Veloce come il vento e Lo chiamavano Jeeg Robot – che incontrò per puro caso la coppia trentina e dopo averlo conosciuti, incuriosito dalla loro vita legata alla loro terra, ha deciso assieme al regista di realizzare questo, film al limite tra il documentario e la finzione. Impossibile non trovare sequenze originali come la stravagante passeggiata col maiale per la fattoria. Il tutto accompagnato dalle ispirate musiche del compositore bolognese Daniele Furlati.

Il film recentemente è stato premiato col Grand Prix dalla Giuria Internazionale del Concorso Golden Goblet Award del 19° Shanghai International Film Festival – uno dei premi cinematografici più importanti del continente asiatico – motivato dalla ‘’naturalezza della scrittura e dalla verità dei dialoghi”

Goodbye Darling, I’m Off to Fight, ambientato nello sconosciuto mondo della boxe thailandese femminile – esattamente della Muy Thai (มวยไทย) – dove protagonista è la vita di Chantal Ughi, ex modella, attrice e cantante ed ora combattente e conquistatrice di ben quattro titoli mondiali di questo sport. Il tutto parte da un vortice pericoloso di sentimenti contrastanti nati dalla rottura con il fidanzato e i terribili contrasti con il padre, gettandola in un terribile periodo di crisi e buio. Lo sfogo e la rinascita avviene in un modo totalmente imprevedibile: appunto attraverso la scoperta – durante gli allenamenti di karate a New York – di questo metodo di combattimento, prima sportivamente ed in seguito anche filosoficamente, da cui la determinante decisione di impararlo lì in Thailandia. Il tutto grazie all’incontro casuale e allo scambio di informazioni fra lei e il regista Simone Manetti, che alla notizia del suo ritorno ha deciso di documentare per un mese e mezzo il suo allenamento, il tutto assieme ad Alfredo Covelli e alla casa di produzione indipendente Meproducodasolo.

Finisce per rimanerci cinque anni, allenandosi e combattendo, diventando forte come un uomo, forte più forte di un uomo, fino a giungere ai livelli più alti di questo sport nobile e brutale. Questa arte marziale diventa presto la sua principale valvola di sfogo, anche per affrontare i fantasmi del suo passato. Dopo un anno di pausa, Chantal torna in Tailandia per riconquistare il titolo mondiale, pronta a sfidare nuovamente sé stessa e ad aprire vecchie ferite.

Chantal ci racconta inoltre che – oltre ad essere stata una delle primissime straniere a praticare questo sport – esso è ancora molto misogino, tanto che le donne non possono passare sul ring e non possono neanche avvicinarsi le spettatrici, ma fortunatamente la situazione sta del tutto cambiando.

Dal Festival di Berlino 2016, Zero Days è il documentario nel quale Alex Gibnex, con coraggio e senza peli sulla lingua, racconta la storia di un particolare e pericoloso virus informatico denominato Stuxnet. Questo virus è terribile perché è stato il primo a essere creato da uno Stato sovranodai servizi segreti statunitensi in collaborazione con quelli israeliani e con lo scopo esplicito di essere non una porta d’accesso a informazioni riservate ma una vera e propria arma: fu Stuxnet, infatti sabotare e creare danni fisici alla centrale nucleare di Natans, in Iran, negli anni del governo di Ahmadinejad.

Nel rivelatorio documentario vi si racconta la genesi, lo scopo e le conseguenze con l’aiuto di testimonianze di rappresentati governativi, esperti di intelligence, di sicurezza informatica, e con la testimonianza di un’agente della NSA che rivela dettagli inediti sull’operazione. Il tutto con un preciso scopo: gli effetti delle guerre informatiche, e cosa potrebbe accadere se questa arma sfugge dai controlli della sicurezza, mettendo lo spettatore di fronte a rischi concreti, a ciò che potrebbe accadere dopo un attacco alla rete elettrica, al sistema dei trasporti, a quello bancario e così via.

Potrebbe ricordare il caso di Edward Snowden, raccontato nel documentario vincitore di un oscar Citizenfour, ma in realtà l’indagine portata avanti e il mostrare questi eventi è assolutamente legale. La materia trattata ovviamente è molto complicata perché si deve padroneggiare sia termini e concetti di sicurezza informatica, sia perché le ramificazioni governative, la catena di responsabilità e anche solo gli eventi sono intricati. Per riassumere, nelle parole di Scott Roxborough, “uno sguardo terrificante alla ciberguerra e la minaccia degli hacker al soldo degli stati”.

Frutto di 5 anni di riprese con una cinepresa 16mm, The Land of the Enlightened, opera prima del regista-fotografo belga Pieter-Jan De Pue, ci mostra un gruppo di bambini afgani della tribù Kuchi, che nella loro lotta per la sopravvivenza scava alla ricerca di residui di esplosivo per poi venderli ad altri bambini, braccianti in una miniera di lapislazzuli. Un dramma ambientato nelle terre desertiche, conseguenza di decenni di bombardamenti e occupazioni militari all’interno di uno dei paesi più poveri come appunto l’Afghanistan, ancora disseminato di mine e bossoli sovietici, assieme al contrabbando di oppio. Il montaggio scompone le parti, dove dimensioni oniriche si alternano a inserti parodistici nelle basi americane, la guerra la si deve prendere sempre in giro.

Sebbene le calde parole della voce narrante siano efficaci, sono le immagini a restare impresse nella mente dello spettatore: i vividi colori dell’azzurro cielo afgano, il candore delle vesti delle donne bambine attutiscono le atrocità del conflitto, su tutto si posa un’inquietante presunta innocenza indispensabile a ricostruire il palazzo ormai distrutto del re nuovo d’Afghanistan. Il film è stato presentato al Sundance Film Festival e all’International Film Festival di Rotterdam.

Non sempre le nostre radici si possono definire perfette, come lo dimostra il film della regista israelo-americana Danae Elon, figlia dell’intellettuale Amos Elon uomo di pace ma duro e mai ideologico sul sionismo e sulle politiche del proprio paese nei confronti degli arabi, posizione scomoda in patria. L’ultima cosa che il padre fa giurare all’amata unica figlia prima di morire è di non tornare mai in Israele. Danae giura ma dopo essersi interrogata, ci riflette e alla fine disobbedisce e decide di trasferirsi assieme alla famiglia, affronta le differenze, si confronta con la realtà sociale compiendo ogni giorno delle scelte precise: Tristan, il figlio più grande, frequenta l’unica scuola elementare della città dove vanno bambini ebrei e bambini arabi, dove si insegnano le due lingue e si studiano le rispettive storie, delle religioni e delle azioni politiche. Alla fine intuiscono rapidamente che il tentativo di agire per il meglio non equivale ad agire effettivamente bene. P.S. Jerusalem è il documento, lungo tre anni e filmato sempre dal punto di vista della regista – sempre dietro la macchina da presa – del tentativo d’integrazione di una famiglia in una zona di conflitti irrisolvibili – ormai pieno di violenza, odio, disprezzo a metà tra la ricerca della propria identità e la perdita di controllo della realtà.

Uno dei film più attesi del festival è l’ultimo film diretto dal regista cileno Pablo Larrain, Neruda, con protagonista il fedele Gael García Bernal – uno dei “padrini” dell’edizione 2016 del Biografilm – in un lavoro sorprendente che tradisce la tradizionale idea di realizzazione di un biopic interamente dedicato al politico comunista Neftalì Ricardo Reyes, conosciuto col nome d’arte di Pablo Neruda. La pellicola è stata protagonista dell’ultimo Festival di Cannes, come film d’apertura della sezione Quinzaine des Réalisateurs.

Un film che partendo dal Neruda politico, ne mette in scena la poesia; il tutto spaziando tra i generi inventando e costruendo un film che sorprende e stupisce lo spettatore. Inoltre esso completa il cammino personale del regista, dopo essersi dedicato alla cosiddetta “trilogia politica Cilena” su Allende e Pinochet – formata dai film Tony Manero (2007), Post Mortem (2010) ed il capolavoro No (2015) – e il suo ultimo El Club (2015), Larrain prende in considerazione il modo particolare di vedere il mondo attraverso l’identità cilena, dando una lettura personale di uno dei periodi più oscuri della vita di Neruda, ovvero la fuga per via di u mandato d’arresto. il film immagina liberamente è l’inseguimento del poeta (Luis Gnecco) da parte di un poliziotto (Gael Garcìa Bernal) che ne detesta le posizioni politiche ma, dentro di sé, lo ammira anche. La “caccia” crea una relazione a distanza tra i due – un gioco del gatto e il topo nel quale lascia all’avversario indizi per accrescere il pericolo e la sfida in cui si trovano coinvolti fra paesaggi andini e momenti di poesia tratti dal “Canto Generale” scritto in proprio negli anni nella fuga e continuamente citato nel film.

Neruda non è solo la storia del poeta quando dell’ispettore Peluchonneau, introdotto come semplice voce fuori campo nelle fasi iniziale del film per poi emergere come comprimario a tutti gli effetti: egli non accetta di essere un personaggio secondario che da signor nessuno nella sfida cerca di trovare, finalmente, uno scopo. Sotto ogni aspetto, dalla accurata fotografia di Sergio Armstrong alla costruzione e le interpretazioni sempre a fuoco, Neruda ci lascia soddisfatti e sorpresi, in una straordinaria ed equilibrata narrazione.

“Anche da questa parte esistono i sogni”. Il film d’inchiesta Walls dei registi spagnoli Pablo Iraburu e Migueltxo Molina, il quale affronta senza peli sulla lingua il paradosso della divisione. Come nel passato abbiamo assistito l’esempio del Muro di Berlino – e della sua simbolica caduta nel 1989 – ha simboleggiato un’epoca storica ormai finita ma oggi, 25 anni dopo, quei muri ancora oggi esistono. Con tre esempi veniamo a sapere le storie e le ragioni di chi va in cerca di una vita migliore nonostante i muri, e di chi ha il compito di fermarli nonostante la compassione. Tre storie, raffiguranti tre distinte situazioni. Un gruppo di uomini aspetta il momento giusto per oltrepassare la barriera che divide il Marocco da Melilla, enclave spagnola in Africa. Migranti tentano di superare il Limpopo, il fiume che separa lo Zimbabwe dal Sudafrica. Fili spinati, muri e sistemi di sorveglianza segnano i confini. Raccontato con un perfetto uso dello Split Screen, ci troviamo di fronte a un film sulla grande illusione dei nostri tempi: quella che dalle maree della storia ci si possa difendere acquattandosi dietro una barriera, che sia fatta di cemento o di indifferenza.

Italia – 1970: in un paese prigioniero dell’ipocrisia sul sesso, un gruppo di ribelli, attraverso l’arma della pornografia e sulla spinta dei movimenti giovanili di quegli anni, inizia una battaglia contro la censura e il comune senso del pudore, per sfondare le barriere del perbenismo borghese e sconfiggere sensi di colpa e tabù che soffocavano il sesso e l’amore.

Nell’indipendente documentario di Carmine Amoroso, Porno & Libertà – Porn To Be Free, finanziato attraverso Indiegogo veniamo a conoscenza attraverso le interviste dirette con la stessa Cicciolina alias Ilona Staller, Riccardo Schicchi, la regista Giuliana Gamba – la rima regista dona ad aver diretto dei film pornografici – e gli scomparsi Marco Pannella e Lasse Braun – “inventore” del cinema a luci rosse. Il tutto grazie ad un grandissimo repertorio di filmati d’epoca, con a volte delle chicche imprevedibili come animazioni di Maurice Sinet, conosciuto per ver lavorato in seguito sul giornale satirico Charlie Hebdo, i fumetti Frigidaire di Vincenzo Sparagna e i disegni di Andrea Pazienza. Non solo pornografia – che all’epoca era strumento di battaglie politiche contro la Chiesa cattolica e la destra politica – ma anche, con uno spirito d’indagine attento, la allo stesso tempo leggero e divertito, le libertà omosessuali e i movimenti femministi.

Nel terzo lungometraggio di Carmine Amoroso, regista del film Cover Boy, viene analizzato nei particolari l’evoluzione di un fondamentale periodo storico intriso di cambiamenti e trasformazioni attraverso appunto la lotta contro l’autorità, il formalismo e la censura, prendendo il cinema internazionale – come i casi del rogo di Ultimo Tango a Parigi, il cinema di Ferreri e Oshima – il Living Theatre di Judith Malina e l’editoria con la pubblicazione di centinaia di migliaia di copie vietate ai minori . Il tutto senza dimenticare l’esperienza del 1976 del Parco Lambro di Milano dove giovani si spogliarono ‘nudi verso la follia’ inseguendo sogno e utopia – con lo slogan ”nudi sì, ma contro la Dc”. Porno & Libertà è un’immersione davvero in un’altra epoca oggi che il sesso è a disposizione su internet e quella carica rivoluzionaria certo non ha più ma le immagini di quegli anni non sono poi, a rivederle ora, così felici, semplicemente appartengono al passato.

In lista fra le nomination dei Premi Oscar per miglior corto documentario, Claude Lanzmann: Spectres Of The Shoah, un documentario di soli 40 minuti che ci rivela il viaggio durato 12 anni intrapreso da Lanzmann per realizzare il film Shoah (1985), un monumentale documentario sull’Olocausto del 1985 della durata di nove ore e mezza, considerato da molti un’opera fondamentale, sia dal punto di vista storico che cinematografico, tanto da essere stato soggetto di tantissimi libri e di seminari nelle università di tutto il modo.

Il corto approfondisce sulle sfide pratiche ed emotive affrontate dal regista dal 1973 al 1985, spiegando i suoi sforzi per convincere i traumatizzati sopravvissuti ai campi di sterminio a raccontare le loro esperienze della seconda guerra mondiale, i pericoli che ha affrontato nel rintracciare e riprendere senza autorizzazione ufficiali delle SS tramite telecamere nascoste, la sua adolescenza trascorsa combattendo nella Resistenza francese, la sua storia d’amore con Simone de Beauvoir e l’amicizia con il filosofo Jean-Paul Sartre, così come le sue difficoltà nel comporre in un unico racconto coeso più di 200 ore di materiale da lui raccolto in un decennio.

A poche ore dalla fine, abbiamo l’occasione di guardare uno dei film più attesi, già protagonista di primo piano dello scorso Cannes Film Festival nella sezione Un Certain Regard: (М)ученик / The Student (2016) del russo Kirill Serebrennikov.

Da subito capiamo che Venia si distanzia dal nostro immaginario di ragazzo adolescente. Non vuole partecipare alle lezioni di nuovo della sua classe, ma non per vergogna del suo corpo come pensa inizialmente la madre, né perché sia gay e non vuole farlo notare, ma perché è contrario alla sua fede. Quella frase detta da un adolescente sa di scusa, ma capiamo dopo qualche minuto che è la verità. Veniamin è nel bel mezzo di una crisi mistica. Legge la Bibbia ma la legge letteralmente, non passa attraverso tutte le fasi che la Chiesa ha fatto, non gli interessa la pacatezza dei sacerdoti dei nostri giorni: lui vuole seguire passo passo la Bibbia e morire per Dio. Inizia con il perseguitare e cercare di eliminare tutte le cose che possano essere contrarie alle parole di Dio. L’oscurantismo prende il sopravvento sulla razionalità e i risvolti sono tragici.

Nonostante la pesantezza del tema trattato nella pellicola – il film anche se è estremamente intellettuale, è inaspettatamente molto rock e divertente, assieme ad una godibile e funzionante sceneggiatura – Serebrennikov porta all’attenzione dell’opinione pubblica estera il crescente fanatismo religioso che sta investendo la Russia contemporanea con il benestare della politica. Il rigore nella messa in scena, con un sapiente uso dei piani sequenza e la bravura di tutti gli interpreti – ma in particolare del protagonista Petr Skvortsov – contribuiscono alla costruzione drammatica, che vive un crescendo inesorabile e allucinatorio.

Da cult le sequenze l’educazione sessuale – che secondo il protagonista non può essere insegnata a scuola perché istiga al sesso prima del matrimonio e creerà talmente caos da far intervenire la preside e sospendere la materia – e la sequenza della lezione sulla teoria dell’evoluzione nell’ora di scienze, dove vestito da scimmia salta sui banchi per impedire anche, perché Dio ha creato il mondo in sei giorni.

QUI la lista integrale dei vincitori delle 3 distinte sezioni dell’edizione 2016 del festival.