Gli 8 di Tarantino tra bufera e comfort zone

Il secondo atipico western di Quentin Tarantino è, al solito, un saggio di padronanza del linguaggio cinematografico, anche se la sensazione è che il Maestro inizi a crogiolarsi in una – meritata – comfort zone invece di spiazzare lo spettatore come un tempo.

In questo periodo di grandi ritorni e revival, il popolo dei drogati di cinema può gioire anche dell’ottavo attesissimo film dello sfrenato Quentin J. Tarantino, di nuovo alle prese con cacciatori di taglie e calessi, in un novello “western” che si fa spazio nella seconda metà dell”800, poco dopo la guerra di secessione. Su una coltre di neve minacciosa che ricopre le incantevoli vallate del Wyoming, Kurt Russel viaggia al calduccio su un tiro a quattro diretto a Red Rock insieme alla famigerata assassina Daisy Domergue (la candidata all’oscar Jennifer Jason Leigh), di cui intascherà una taglia di 10mila dollari; già che c’è, dà uno strappo al collega Samuel L. Jackson rimasto a piedi, e poi al nuovo presunto sceriffo di Red Rock, proprio il luogo dove Daisy deve essere giustiziata. Costretti da una tremenda bufera di neve, si fermano alla locanda di Minnie, ma al posto della donna, trovano gli altri quattro hateful rimasti: un boia inglese (Tim Roth), un vecchio veterano sudista (Bruce Dern), un grosso messicano (Demián Bichir) e un fattore tranquillone (Michael Madsen). Tra chiacchiere velenose, stufati brodosi alla Bud Spencer e colpi di doppia canna, la permanenza nello chalet si rivela presto ben più che una meteorologica coincidenza.

The H8ful Eight è entertainment d’autore (e di qualità cristallina) ma allo stesso tempo un film “minore” (e un mezzo passo falso) per il cineasta di Knoxville? Ovviamente ci sarà da discutere, anche animatamente: iniziamo con la nostra recensione doppia.

 

*_di Isabella Parodi

Tarantino molla in parte l’action per donarsi a una quasi immobile partita di Cluedo, in cui è chiaro che fidarsi è bene, ma non fidarsi ti può decisamente salvare il culo. Un tema che in realtà regna sovrano fin da Four Rooms ma che qui trova l’apice. Siamo in una scatola chiusa alla Agatha Christie, il che costringe Tarantino a destreggiarsi tra le quattro mura in croce dello chalet-palcoscenico da lui scelto. E quando elimini lo spazio a un regista, si sa, qui si parrà la sua nobilitate. Per questo ci inchiniamo tutti al duo Tarantino-Richardson (direttore della fotografia), che tra totali soffocanti e movimenti di macchina fuorvianti, riesce a mettere su schermo tranelli e sensazioni tipici della narrazione gialla scritta in forma romanzata. Richardson (già esperto ritrattista di neve) raggiunge poi il sublime con le esterne, i movimenti dei cavalli e quei leggeri, morbidi fiocchetti di neve che penetrano dalle fessure del legno dello chalet. Cose decisamente più godibili nella versione in pellicola a 70mm.
Mentre regia e fotografia fanno le capriole, dentro allo chalet si consuma il consueto cocktail Tarantiniano. Dialoghi inverosimilmente meravigliosi, giochi delle parti, scazzottate a tratti esilaranti, sangue midollare, stalli alla messicana, flashback eccetera eccetera. Il tutto cullato dall’evergreen Ennio Morricone, per l’occasione in veste di compositore originale, che ancora una volta fa onore all’Italia donando un’epicità non a fuoco in The Hateful Eight. 
Più che nei precedenti (Bastardi senza gloria e Django Unchained) qui si parla anche di politica. Il diverbio nord vs sud ci viene sbattuto in faccia con prepotenza: la guerra di secessione è finita e Tarantino fa luce su quel bizzarro periodo che deve essere stato la seconda metà dell’800 americano, costringendo un sudista razzista fino all’osso e parlare con un nero libero, orgoglioso e che sa il fatto suo più di tutti gli altri bianchi messi insieme. E’ infatti il divino Samuel L. Jackson a reggere il gioco per la maggior parte del tempo, il VERO negro di Tarantino che, diciamocelo senza vergogna, si mangia Jamie Foxx in insalata e lo risputa con una scatarrata sanguinolenta senza troppi problemi. Non sarebbe nemmeno il protagonista, e infatti qui si arriva al primo problema del film: il disequilibrio tra gli 8 bastardi chiusi nella casa, non tutti a fuoco e interessanti allo stesso modo. Tim Roth soffre degli ultimi due film di Tarantino e il suo personaggio è scritto e diretto come se al posto suo ci fosse l’assente Christoph Waltz ad interpretarlo; il messicano e il fattore sono sbiaditi e non bucano lo schermo (è più efficace l’ex ballerino Channing Tatum nei suoi pochi minuti di gloria); Walton Goggins (lo sceriffo) è troppo sopra le righe persino per Quentin. Per fortuna rimangono il mitico Kurt Russel e soprattutto la Leigh, finalmente un nuovo personaggio femminile degno di nota, dopo lo sfacelo dell’insulsa Kerry Washington/Brunhilde di Django Unchained.
Il cancro del disequilibrio si estende però anche alla sceneggiatura, in questo ottavo film più stiracchiata del solito. Non c’è bilanciamento tra i primi (TROPPI) 40 minuti ambientati in carrozza e tutto quello che viene dopo. Alcuni dialoghi sono davvero lunghi e danno la fastidiosa sensazione di già sentito, di rimasticato. Saranno anche suoi marchi di fabbrica, ma nel guardare un film non si possono fare sconti a nessuno, e non va bene scusare un difetto sbraitando il trito e ritrito “Ma è di Tarantino! Lui è fatto così!! We love making movies!!!”. Non possiamo ignorare che al nostro amico piaccia trastullarsi il piffero con certe cose, che quando stroppiano, fanno uscire il film dai binari dell’eccellenza e lo trascinano verso la stazione dei registi che danno per scontato il proprio pubblico. E’ una stazione triste, non degna di un cineasta geniale come lui, un tempo capace di tenere le fila di trame ben più complesse e disarticolate, guarda caso, mantenendole in perfetto equilibrio senza per questo sacrificare il suo stile.
Checché ne dica il suo regista, il film non si pone in continuità logico-artistica con la sua filmografia, si limita a proseguire (a cavallo, ovviamente) la discesa del troppo e del già visto cominciata tempo fa con le sbavature del di per sé geniale Bastardi senza gloria, e poi con gli scivoloni meno scusabili di Django Unchained.
Come i precedenti tuttavia, 
The hateful eight rientra nell’apprezzabilissima categoria dei grandi film dell’entertainment d’autore e in qualche modo riesce sempre a toccare i punti giusti del cinefilo seduto in sala. E chi lo nega pecca di snobismo.

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_di Lou M. Reichardt

Fellini, di fronte alla crisi creativi del regista maturo ed affermato, reagì sfornando il suo ottavo-e-mezzo film, appunto, Otto e mezzo. Che l’ottavo film di Quentin Tarantino si chiami The Hateful Eight non è quindi affatto casuale – sembra addirittura scontato trovare l’ennesimo omaggio neanche tanto nascosto nell’oceano di riferimenti pop che arricchiscono la cinematografia del regista americano. Che sia un omaggio e nulla più? Forse. Ma abbozzando una lettura più approfondita e pescando un po’ dalla psicanalisi freudiana, potremmo leggerci un messaggio nascosto in questo titolo, che a posteriori (a film visto) sembra suggerire un sinistro presagio. Che la crisi dello scrittore abbia colto anche il vulcanico e logorroico Quentin? E’ possibile. Ed avrà lui saputo, come Fellini, riconoscere ed affrontare di petto la crisi, e finalmente salire gli ultimi gradini verso la grandezza, verso l’olimpo dei suoi maestri, producendo un film di grandezza comparabile (all’interno delle rispettive filmografie) all’immortale Otto e mezzo? Purtroppo qui saremo diretti. La risposta è no.

The Hateful Eight piuttosto continua una parabola discendente (seppur in lieve, delicata caduta, quasi che Quentin abbia aperto un paracadute) iniziata a mio avviso già con il comunque ottimo Kill Bill. Dove Fellini si salvò con la più feroce e ironica auto-analisi, affrontando e distruggendo i demoni interni ed esterni che assillano ogni autore di successo, Tarantino invece cerca rifugio nel conosciuto, senilmente, con malinconia sconfitta. I suoi soliti attori feticcio, i suoi soliti dialoghi, il ritorno al suo amatissimo western; benissimo, allora ci si aspetterebbe un capolavoro, o per lo meno un film perfettamente a proprio agio, da autore maturo. Ma un Quentin consapevole dei propri acciacchi tenta di forzare la mano imponendosi dei paletti, come l’impostazione teatrale e l’impalcatura della trama da classico whodunit. Due elementi che avrebbero dovuto smuovere le acque ormai stagnanti della filmografia eccellente di un autore forse fin troppo affermato ed acclamato (meritatamente) per il suo stesso bene, ma che invece non fanno che esasperare i difetti della sceneggiatura. Questa è macchinosa, plastica, artificiosa. S’affida ai dialoghi, un marchio di fabbrica, una misura della autorialità tarantiniana, un porto franco per lodi sicure: ma è una scelta troppo accondiscendente per funzionare. Tutto, confrontato con la grandezza delle prime tre pellicole dell’autore losangelino, è opaco, fiacco, in una parola, mediocre, tanto che nemmeno le ottime musiche di Morricone, l’eccellente lavoro di messinscena e qualche ottima prova di recitazione (Jackson mattatore, Roth un talento sprecato, Madsen invece pigro e imbolsito) ce lo fanno digerire. Stavolta è un mezzo passo falso Quentin, e se vogliamo sperare di tornare ad ammirare capolavori come Pulp Fiction e Jackie Brown è ora che le critiche sovrastino le lodi.

Un Tarantino più politicizzato ma meno incisivo e innovativo?

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_ di Nicola Bovio 

L’ottavo film di Tarantino è spiazzante. Il regista del Tennessee porta in scena una pièce teatrale difficile da metabolizzare.

Mettiamo 8 personaggi in una stanza costretti a rimanerci per via di una bufera. Aggiungiamoci storie di bande criminali e cacciatori di taglie e dopo 187 minuti (167 nella versione digitale) di cottura lenta avremo il film di Tarantino. Il sapore però è insipido e anche la digestione non è delle più facili. Forse perché manca qualche ingrediente per insaporire un po’ oppure è il piatto in sé ad essere troppo pesante. I dialoghi sono il perno di tutto, in quanto causa generante delle tensioni all’interno dell’emporio che tengono vivo il film, ma la voglia di dare un background complesso a molti degli 8 protagonisti ha come rischio di allungare gli scambi di battute fino al punto in cui l’attenzione dello spettatore viene meno. Nonostante il cast composto alla maniera di Tarantino con attori adattissimi per i loro ruoli, sono Jennifer Jason Leigh e Walton Goggins (da sentire in versione originale) quelli che caratterizzano meglio la loro interpretazione, mentre non si può non menzionare il fatto che Tim Roth sembra stia interpretando Christoph Waltz. Non è sicuramente il miglior film del regista di Knoxville, ma ha il pregio di essere qualcosa di nuovo rispetto al resto della sua filmografia pur mantenendo le peculiarità come le esplosioni di violenza, l’ottima colonna sonora, composta in gran parte dal maestro Morricone, la celebrazione di un genere di film particolare proprio del passato e il citazionismo, più autoreferenziale questa volta. Tarantino ci ha abituato bene e anche un minuscolo passo falso ha ripercussioni enormi su come viene assimilato il film, ma i difetti appaiono evidenti rendendo questa ottava portata non saporita come le precedenti. Forse con dei personaggi meglio caratterizzati e dei dialoghi più vivaci si sarebbe riusciti a rendere gustoso questo piatto in celluloide senza snaturare l’intenzione iniziale della pellicola: Tarantino ha la rara qualità di prendersi dei rischi, ma questo non vale solo e sempre “nel bene”.

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