Al netto dell’interpretazione un po’ sopra le righe di Jason Segel, il film di James Ponsoldt ha il merito di aggirare la tentazione del biopic agiografico e provare a raccontare l’indecifrabile figura di David Foster Wallace durante il tour promozionale di Infinite Jest.
di Andrea Carobbio – Giudicare The End of the Tour è difficile per tutta una serie di motivi che non c’entrano col film – o almeno, non in senso stretto – ma coinvolgono questioni più ampie e profonde e dolorose. David Foster Wallace è stato uno scrittore fenomenale che a trentaquattro anni ha scritto un romanzo di oltre mille pagine e a quarantasei si è impiccato, e da quel momento la sua fama ha iniziato a dilatarsi un po’ come il pallone aerostatico che cresce al punto da coprire il cielo di Manhattan in quel meraviglioso racconto di Barthelme, e un po’ come è avvenuto ad altri prima di lui, cristallizzati in icone da t-shirt o Wikiquote da una morte violenta o prematura e dalla seguente canonizzazione mediatica – a volte del tutto ingiustificata.
E se pure quest’ultimo non è il caso di Foster Wallace – che merita ogni singola attenzione ricevuta – non si può non considerare quello che lui avrebbe potuto pensare di tutto questo insopportabile processo speculativo, della sua immagine ridotta a personaggio cinematografico ed entrata a far parte una volta per tutte dell’Intrattenimento, della sofferenza fisica di chi lo ha conosciuto e amato davvero, e che questo film non lo voleva. Ma allo stesso tempo per noi, per tutti gli altri che hanno vissuto DFW solo come esperienza letteraria, e che hanno dovuto fare i conti con la straziante constatazione che quel numero di combinazioni di parole e concetti che Foster Wallace ha scritto resterà tale e non ce ne sarà dall’altro, The End of the Tour rappresenta qualcosa di diverso, un modo più fisico, materiale – anche se certamente non più autentico – di averci a che fare, come una sorta di surrogato felice e triste allo stesso tempo e che lascia in qualche modo scombussolati.
Il soggetto di The End of the Tour è un libro scritto da David Lipsky nel 2010. Si chiama Although of Course You End Up Becoming Yourself – tradotto da noi in Come diventare se stessi, titolo che ricorda quei manuali di psicologia spiccia venduti coi settimanali d’estate, insieme ai braccialetti e agli occhiali da sole di plastica azzurra – e di fatto è la semplice sbobinatura di una lunga intervista dello stesso Lipsky a Foster Wallace, registrata nel marzo del 1996. Allora Lipsky è un trentenne con un romanzo di scarso successo alle spalle, che viene spedito da Rolling Stone a casa di questo autore emergente che ha scritto un libro incredibilmente lungo di cui parlano tutti, che se ne va in giro con la bandana sulla fronte, e insomma sembra un tipo davvero fico e adatto per la rivista. Così Lipsky si trova ad accompagnare Wallace nell’ultima settimana del suo tour promozionale di Infinire Jest, durante la quale registra su cassetta praticamente ogni loro conversazione – a casa, in auto, in aereo, perfino al cinema -, anche se alla fine di quell’articolo non se ne farà nulla e quelle cassette resteranno a prendere polvere in una scatola da scarpe per più di dieci anni.
[quote]”Chiunque abbia letto ciò che è stato scritto da David sa quanto fosse tormentato dall’idea di diventare una figura pubblica e dall’ansia di stare dalla parte sbagliata dello schermo” – Michael Pietsch, editore e amico intimo di Wallace[/quote]
The End of the Tour parte proprio da quella scatola. Siamo nel 2008: David Lipsky – interpretato da un Jesse Eisenberg come sempre a suo agio quando si tratta di fare quello brillante e un po’ sfigato – viene informato del suicidio di David Foster Wallace. Commosso, recupera le cassette e inizia a riascoltarle. Da lì, il film diventa un unico lungo flashback di quei cinque giorni passati on the road dai due giovani scrittori, un sunto di un’ora e mezza piuttosto fedele rispetto ai dialoghi originali con l’aggiunta di un piccolo climax conflittuale del tutto inventato, forse utile alla narrazione ma piuttosto irritante. Per il resto, la regia di James Ponsoldt è fluida e leggera, e svolge tutto sommato bene il compito non semplice di rendere piacevole un film costruito essenzialmente su frammenti di conversazioni. Molto meno convincente è Jason Segel, lanciatosi in un generoso tentativo d’identificazione con DFW, finendo però – proprio come accade agli attori modesti – per caricare in eccesso la sua interpretazione, e il risultato è una performance eccessivamente zelante e deformata e priva di ogni naturalezza.
Ma il punto è un altro. The End of the Tour non è un biopic, come si è detto. Non c’è la vita di David Foster Wallace, ma – proprio come il libro di Lipsky – è piuttosto un’istantanea di consapevolezza. Racconta di un scrittore ancora giovane sommerso da un successo improvviso e smisurato e difficile da gestire, e che di fronte a tutto questo cerca – come ammette lui stesso – di coltivare una normalità che gli sta sfuggendo dalle dita. DFW era e voleva essere prima di tutto una persona normale. Era intrigato dall’idea del successo, ma ugualmente temeva di venirne assorbito, divorato. Odiava l’idea di romanticizzare la sua esperienza con la depressione e con l’alcol. Lo terrorizzava il fatto di non poter controllare il modo in cui la sua immagine veniva modellata all’esterno. Ed era profondamente insicuro riguardo i suoi reading, le recensioni e tutto quello spettacolo mediatico scatenatosi intorno e dentro alla sua testa.
Come ha detto Michael Pietsch, suo editore e amico intimo: “Chiunque abbia letto ciò che è stato scritto da David sa quanto fosse tormentato dall’idea di diventare una figura pubblica e dall’ansia di stare dalla parte sbagliata dello schermo”. E The End of the Tour è per definizione la parte sbagliata dello schermo. Ma pur non riuscendo a rendere la profondità dell’uomo Wallace – e la sua stordente brillantezza, e la sua ironia -, pur insistendo troppo sul quel suo lato più tormentato, ha comunque il merito di non cedere alla facile esaltazione del suo culto, di non contribuire alla sua beatificazione letteraria, di non spettacolarizzarne le debolezze.
The End of the Tour non è – con buona pace di Bret Easton Ellis, che ormai suscita interesse solo quando parla male di DFW – reverenziale, né un santino in pellicola. The End of the Tour è semplicemente un film sbagliato e onesto che prova a restituire quella normalità che David Foster Wallace andava cercando. E in un modo imperfetto e commuovente alla fine riesce nel suo intento: ricordarci quanto la sua mancanza ci faccia sentire tutti più soli.