The End, l’atipico “musical post-apocalittico” di Joshua Oppenheimer

Non c’è dubbio che stiamo vivendo in un’epoca complessa, difficile da decostruire, ma il tempo a disposizione sarà sempre meno. The End è lo schiaffo in viso di cui tutti abbiamo bisogno? Articolo a cura di Fabio Taravella.

“This is the way the world ends / Not with a bang but a whimper”, questo è il testo che introduce il viaggio: una citazione che riflette il proposito di non voler generare suspence alcuna; Joshua Oppenheimer per la prima volta alle prese con un’opera narrativa, dopo i celebri documentari “The Act of Killing” e “The Look of Silence”(entrambi concentrati sugli eventi del genocidio indonesiano del 1965/66), rende esplicito il contesto attraverso un passo da “The Hollow Men” di T.S. Eliot, autore al quale, inoltre, pare ispirarsi per la messa in scena costruita attraverso stili e registri contrastanti come accadeva poeticamente in “The Waste Land”.

Il mondo è per l’appunto finito, spazzato via da una catastrofe naturale che ha reso impossibile vivere in superficie, ma una famiglia di magnati, possibili fautori della tragedia stessa, trovano il modo per salvarsi “vivendo” in un bunker sotterraneo, edificato all’interno di una miniera (la location reale è quella delle miniere di sale Raffo presso Petralia Soprana in Sicilia), che con l’ausilio di tecnologie avanzate è in grado di fornire aria salubre (i campi lunghi sulle tubature quasi vive rimandano ai sandworms di Arrakis), poter coltivare, e in generale sopperire al fabbisogno del gruppo di sopravvissuti.

Tutto scorre in una dimensione di idillio calcolato, in cui, ogni personaggio archetipo, ha un ruolo predefinito, come impersonale ingranaggio del sistema, finalizzato alla massimizzazione dell’operato domestico.

Il guizzo di genio dell’autore, assegna alla componente musicale, anzi, più corretto dire musical (genere tanto superficialmente odiato dallo spettatore medio nostrano) il compito di veicolare l’emanazione di un ottimismo cieco, talvolta fallendo nel suo intento, zoppicando, arrancando, o spingendo fuori, in numeri degni di Broadway, i “veri” sentimenti primordiali dei protagonisti che non sempre riescono ad essere trattenuti. George MacKay, Il Figlio, con piglio de eroe di una tragedia greca, mette in scena una sequenza particolarmente convincente in cui tenta di domare i mai sollecitati impulsi ormonali dopo l’arrivo della “nuova” reduce dall’esterno. E’ un musical impuro che gioca su diversi piani di lettura, molto diverso dal recente Emilia Perez in cui Audiard si serviva del mezzo, in chiave postmoderna e puramente estetica, per raccontare snellamente allo spettatore le circostanze narrative.

La colonna sonora è una protagonista eterea, curata da Joshua Schmidt e Marius de Vries, combina generi che vanno dal minimalismo strumentale all’elettronica ambient: le suggestioni riportano alla mente Tim Hecker e William Basinski, il risultato è in linea con la tendenza alla ricerca di straniamento tipica delle ultime produzioni cinematografiche indipendenti. Da notare, inoltre, come un attento lavoro sulla fotografia, nelle “magiche” variazioni di tono, restituisca calore alle sensazioni provate dai “teatranti”.

Il dna documentaristico è ben visibile; il tempo passa e c’è un’indagine in corso: si parla di NOI, dell’indifferenza nei confronti del prossimo, della politica razzista di Trump, dei pregiudizi non giustificabili, e soprattutto della bolla di falso benessere che ci ha anestetizzati, così come accade ai protagonisti delle vicende narrate, che, anche quando messi di fronte alle problematiche più pericolose della guerra e dei disastri ambientali, non sono in grado di prendere una posizione. E’ inquietante quanto sia assimilabile all’atteggiamento della nostra stessa società il modo in cui il nucleo famigliare rappresentato, nonostante viva ormai come possibile unico gruppo di superstiti, cerchi di vestire le maschere di una perfetta vita borghese fatta di apparenze ed esasperate buone maniere. Il gioco della performance prende una piega postuma, alla fine anche quel poco di umano diverrà un playback dei sentimenti, un inno funebre sotto mentite spoglie, nient’altro che un amaro specchio del nostro mondo attuale. The End?