Tre settimane di programmazione sold out, un passaparola in crescita esponenziale dopo ogni replica, ricerca di biglietti last minute: non è il tour dei Radiohead bensì il Dracula di Andrea De Rosa al Teatro Astra, lo spettacolo che si è imposto come uno dei “casi” teatrali più apprezzati e chiacchierati degli ultimi anni, aprendo tra gli applausi la stagione 2025-2026. Un successo meritatissimo in virtù di una esperienza in sala atipica quanto memorabile. Intensa, elettrizzante e perturbante. Articolo a cura di Lorenzo Giannetti.
Il viaggio dal quartiere Campidoglio di Torino alle vette burrascose dei Carpazi comincia con un disclaimer, una criptica avvertenza sui canali social del Teatro Astra: “Guardate bene da tutte le parti“. E in effetti c’è subito qualcosa che non torna una volta varcata la soglia del teatro: sui biglietti non sono segnati i posti a sedere e al contrario di quanto accade solitamente veniamo fatti entrare tutti da un unico ingresso alla sinistra del palco. Ci fermiamo però poco dopo, prima di riuscire anche solo a vederlo, il palco. Restiamo in piedi, al buio, vagamente interdetti; poi improvvisamente una coltre di fumo inizia ad avvolgerci nell’imbuto del corridoio. Lo spettacolo inizia lì.

Entra in scena un trafelato Michele Eburnea nei panni di Harker e in medias res ci trascina in un vortice di paranoia. La vicenda è nota: l’agente immobiliare sta cercando non senza difficoltà il Castello del Conte Dracula, fieramente arroccato tra le alture più impervie dell’Est Europa. Non compare la carrozza spettrale presente in altri adattamenti, né il nocchiere timorato di Dio che dona un crocefisso al viaggiatore miscredente. Harker vaga da solo in mezzo al bosco, accompagnato unicamente dalla luce fioca di una lanterna e assillato da rumori e presentimenti sinistri. Il suo monologo sull’orlo di una crisi di nervi è un incipit perfetto e ci conduce ai piedi del castello del conte. Quando il portone laterale del teatro si spalanca per farci riversare in sala, il buio domina ancora la scena ma il colpo d’occhio riesce comunque ad abbagliarci.
Lo spazio scenico del Teatro Astra è completamente stravolto: si è trasformato nel castello. Anzi, è diventato qualcosa di più. Come in un bizzarro gioco di scatole cinesi ci troviamo contemporaneamente all’interno di due spazi che si completano e compenetrano. Da un lato ci addentriamo in un castello gotico innervato da contorte rampe di scale e incorniciato da finestre logore. Dall’altro siamo investiti dal biancore asettico di una sorta di “obitorio metafisico” con tre tavoli da operazione-autopsia. Ben presto vedremo come la scena di dilaterà ulteriormente…
L’Astra ci ha abituato a drammaturgie e allestimenti suggestivi o fuori dagli schemi: sulla scia dell’orrore di Dracula tornano alla mente ad esempio le atmosfere claustrofobiche dei Nottuari di Thomas Ligotti (altro autore di culto e altro spettacolo da incorniciare) accompagnati dalla musica onirica di Paolo Spaccamonti.

Mentre il nostro ingenuo agente immobiliare perde la bussola nei meandri del castello – quasi un labirinto senza luce – si rivela la figura di Dracula, interpretata da una sempre magnetica Federica Rosellini. Vista di recente alle prese con un’altra clamorosa interpretazione nello stream of consciousness dal nucleo trans-femminista di iGirl e peraltro già nei panni maschili di Amleto, Rosellini è ormai una certezza del nostro teatro contemporaneo, un talento che brilla di luce propria all’interno di ogni spettacolo. Testa rasata e fisicità prepotente, la sua presenza è calamita e calamità. Si inerpica sui sedili del teatro che vanno a formare una muraglia tetra, si contorce su rampe di scale che sembrano scheletri industriali. Sibila e sbraita, declama fatti storici e reclama sentimenti sopiti.
È la sua canzone d’amore e morte. È la sua danza macabra.
E c’è una peculiare musicalità nella drammaturgia di Fabrizio Sinisi, intrecciata in maniera indissolubile alla regia di Andrea De Rosa: un testo in un certo senso poetico nel suo sovrapporre immagini, quasi una partitura musicale nella sua armoniosa non linearità. Uno stile di scrittura sempre più riconoscibile e ficcante, che di recente ha sperimentato anche la strada della narrativa: è uscito quest’anno il primo romanzo di Sinisi intitolato “Il Prodigio“, presentato al Circolo dei lettori proprio durante i giorni di programmazione di Dracula all’Astra. Un esordio visionario nel solco di Saramago e Buzzati: maneggiare con cura e soprattutto tenere d’occhio.

Dracula attraversa gli oceani del tempo per ritrovare il suo amore e noi continuiamo ad attraversare lo spazio del teatro attraverso prospettive diverse.
Il personaggio interpretato da Marco Divsic ci fa alzare gli occhi verso il soffitto e apre una nuova porzione della scena. Il suo marinaio esagitato Renfield, sembra un uccello in gabbia mentre si dimena bardato in quell’impermeabile giallo, si muove come una scheggia impazzita sopra di noi, sul tetto (ne vediamo l’ombra dei passi e la luce della torcia) e sulla balaustra alla nostra sinistra. Da buon lupo di mare avverte che l’aria sta cambiando: l’aura negativa di Dracula aleggia sulla nave, portando orrore, pestilenza e morte. Veniamo travolti da entrambi i suoi monologhi, dominati da un terrore totale e dal ritorno ossessivo dell’immagine dei ratti – una sorta di “coda” del passaggio del conte. Affiora dal nostro inconscio l’epica scena del Nosferatu di Herzog con la città letteralmente invasa da un fiume di topi infetti.
L’apparato tecnico è un altro attore protagonista dello spettacolo.
Il sound design dell’infallibile G.U.P. Alcaro gela il sangue nelle vene e tiene incollati alla poltrona. Un suono sferragliante come le catene metaforiche che imprigionano Dracula unito alla pulsazione martellante del cuore inquieto che troneggia al centro dalle scena. Dirompente ai limiti del disturbante, questa sinfonia dell’orrore avvolge e a tratti sconvolge la platea: come a stritolarla dentro al mantello del vampiro, come ad un concerto ambient in un capannone industriale, come si addice a questo teatro della crudeltà multisensoriale.
Non sono da meno le luci di Pasquale Mari. Illuminare una storia di vampiri è impresa assai ardua: si è costretti a lavorare con pochi elementi, per sottrazione e per suggestione. Il riflesso di una finestra, l’ombra di un candelabro sul muro, lo squarcio di un portone spalancato: attraverso questi “movimenti di luce” Mari sembra riuscire a dare la parola ai personaggi ancor prima che aprano bocca.
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Come avvenuto in passato con personaggi altrettanto complessi quali Edipo o Orlando, più che raccontare semplicemente una storia De Rosa e Sinisi sviluppano un tema – in questo caso lo vivisezionano – e pongono domande.
È la morte a dare un senso alla vita? Il Male è qualcosa di insito nell’essere umano in maniera indissolubile? È sempre possibile esercitare il libero arbitrio?
Se il Nosferatu estetizzante di Eggers sembrava quasi un susseguirsi di tavole pittoriche senza una vera e propria anima, quello di De Rosa riesci a tenere insieme l’immediatezza immaginifica della poesia e la razionalità della dissertazione filosofica, mantenendo una vibrazione calda e molto umana. In particolare grazie alle sfuggenti sfumature e all’ambigua tensione del rapporto che si instaura tra i due innamorati. Ma non solo. C’è un trionfo generale poiché tutti i personaggi e gli interpreti riescono a ritagliarsi riconoscimenti e applausi: non possiamo che accodarci elogiando le ottime prove di Michele Eburnea nei panni di Jonathan Harker e Michelangelo Dalisi in quelli di Van Helsing.
La Mina di Chiara Ferrara passa dalla sensualità esasperata nelle scene fisiche in cui si contorce sul tavolo operatorio – in un crescendo erotico-splatter al limite del body horror – alla naïveté quasi adolescenziale nei dialoghi di presa di coscienza nella seconda metà dello spettacolo.
Federica Rosellini incarna il travaglio interiore del vampiro vittima di sé stesso con padronanza assoluta: Andrea De Rosa pensa per lei un Dracula che non è atipico per il fatto di essere interpretato da una donna ma innanzitutto perché ribalta la prospettiva ideologica del romanzo di Stoker. Nelle pagine letterarie Dracula muore travolto dagli eventi; qui Rosellini sceglie l’amore a costo della morte, in un tragico quanto destabilizzante esercizio estremo di libero arbitrio. Non è solo un colpo di scena ma un vero e proprio cortocircuito. Una messa in discussione di un intero sistema di valori.
L’amore vorace e (p)ossessivo del cacciatore con la preda apre una riflessione quanto mai contemporanea sui tanti colori del desiderio (con tutte le implicazioni e complicazioni che la cronaca può suggerire). L’orgasmo orchestrato a distanza tra i due amanti è da brividi nella sua cruda sensualità. Ecco però la pulsione animalesca lascia spazio ad un gioco di seduzione sì carnale ma dal sapore agrodolce, una danza di corpi che finalmente si fanno entrambi soggetti. Questa evoluzione vede il zenit nell’arrivo di un’alba sempre più imminente ma stavolta accolta con amore dal vampiro, che non ha più intenzione di restare imprigionato dalle catene dell’immortalità. Mina e Dracula si avvolgono in uno scambio di parole e sguardi intimo e delicato, di rara intensità e bellezza.
Poi succede ancora qualcosa di inaspettato. I due amanti evocano a sorpresa alcune celebri scene cinematografiche dedicate all’albeggiare in una atmosfera finalmente rasserenata e conviviale: non è una semplice (e deliziosa) parentesi citazionista fine a se stessa ma una mappa meta-narrativa dei riferimenti ideologici dello spettacolo. L’alba come risveglio dell’orrore bellico in Apocalypse Now, l’alba sulla spiaggia della Dolce Vita come sorniona presa di coscienza della incomunicabilità nei rapporti umani e soprattutto l’alba sotto la pioggia di Blade Runner come big bang esistenzialista tra uomo e androide. Nella parole del leggendario finale della pellicola di Ridley Scott – “È ora di morire” – anche il Dracula di De Rosa trova la propria redenzione e il superamento dei proprio limiti: non come villain ma come eroe tragico, quasi un Oltre-vampiro nietzschiano. È ora di amare.
L’amore è la cura alla sua immortalità patologica. L’amore è la meta del suo viaggio al termine della notte.

Il Dracula di De Rosa e Sinisi entra a modo suo negli annali del teatro cittadino.
Difficilmente verrà adattato altrove, per la natura stessa dello spettacolo pensato in un’ottica quasi “site specific” per le assi di via Pilo. Molto più plausibile, oltre che auspicabile, venga riproposto tra queste mura anche nelle prossime stagioni. Del resto, lo stesso De Rosa alla vigilia lo aveva definito un “omaggio al Teatro Astra” e dopo averlo visto la sensazione è che si tratti di un vincolo quasi “spirituale” ancor prima di diventare un impedimento logistico.
Uno spettacolo di questo genere, impattante in maniera molto trasversale, sembra poter ambire alla statura di cult istantaneo in virtù del talento cristallino dei suoi protagonisti e del coraggio nel prendersi tutta una serie di licenze nella rilettura di un’opera arcinota. Tuttavia c’è un altro aspetto da sottolineare. Questo risultato si inserisce nel quadro più ampio della direzione artistica virtuosa portata avanti da Andrea De Rosa in questi anni, fatta di scelte spesso inedite e sempre intriganti, coadiuvate da una comunicazione davvero fresca e contemporanea.
Non è facile portare le persone a teatro. È ancora più difficile attirare un pubblico transgenerazionale e internazionale. Ma la scommessa pare esser stata rilanciata. E l’asticella si è alzata. Come dire? Per Aspera Ad Astra?
Tutte le foto nell’articolo sono di Andrea Macchia. Il prossimo spettacolo in programma si intitola ATOMICA e racconta l’orrore di Hiroshima attraverso una prospettiva particolare: il rapporto epistolario tra il filosofo tedesco Gunther Anders e Claude Eatherly, il pilota americano che sganciò la bomba. Scopri tutti gli spettacoli del TPE Astra.
