All’Arci Bellezza approda Hailey Fohr, alias Circuit des Yeux, per un live breve ma densissimo, impreziosito da un ospite speciale. Reportage a cura di Giulia Costa Barbè.
La sensazione è quella di trovarsi in mezzo a una platea selezionata, composta da addetti ai lavori e musicofili dai gusti iper-raffinati. Scorgo tra il pubblico una maglietta stinta degli Einstürzende Neubauten; ok, ho la certezza che sarà un gran concerto. La serata è aperta da Ethan, modello dall’identità queer e dal timbro angelico, accompagnato da un’eccellente chitarra lo-fi. Poco hype e molta sostanza: si rivela un degno amuse-bouche.

Archiviate le atmosfere eteree dell’opening act, la macchina della nebbia inizia a sbuffare come si addice alle più tetre notti invernali lombarde; le luci si abbassano e non si scosteranno mai dalla dicotomia blu-rosso. Ci caliamo nel mood: lo spettacolo può iniziare.
Non si svela subito al pubblico Haley Fohr: resta lontana dal proscenio e inizia in versione quasi acustica con Skeleton Key, tratta dall’ultimo lavoro Halo on the Inside. Avanza piano sotto le luci della palestra Visconti, che mai come questa sera assomiglia a un antro capace
di diventare ventre materno o prigione soffocante, a seconda di ciò che arriverà dal palco.
Il brano si apre in un crescendo strumentale e, pian piano, anche la nostra oscura sacerdotessa si rivela: mostra sotto le luci il volto seminascosto da un paio di grandi occhiali da sole, mentre l’enorme giacca che la avvolge si apre per svelare un grembo nudo all’ottavo mese. Quello che lei definisce il suo “private raft of hope” diventa elemento stesso della performance, rendendola ancora più degna di nota vista l’evidente difficoltà tecnica.
Le riserve di chi, tra il pubblico (me inclusa), temeva un’esibizione vocale sopraffatta dalle basi e dal fuzz vengono subito sciolte da una voce potentissima e appena riverberata, quasi baritonale che si muove cupa e sinuosa senza mai sfociare nell’autocelebrazione.
Dopo i primi due brani, penalizzati da un piccolo problema tecnico, finalmente si inizia a sentire anche il basso: l’elemento che mi aveva fatto scoccare la scintilla al primo ascolto del singolo Truth, e che mi ha fatto amare da subito la sua ultima opera. Non c’è niente da fare,
torno sempre alle ritmiche oscure e ossessive, quelle che se sei preso male ti gettano in K-hole senza speranza, ma che questa sera fanno pulsare il pubblico in un solo grande respiro, come in un rito sciamanico collettivo.
Non lo noto subito, ma sul palco – oltre agli eccellenti Andrew Scott Young e Ashley Guerrero, rispettivamente al basso e alla batteria – c’è una figura magnetica accompagnata da una chitarra dal suono spettrale: è Alan Sparhawk. Sarà una serata da ricordare.
La scaletta è quasi interamente occupata dalle tracce dell’ultimo disco e si conclude con It Takes My Pain Away, dove la voce, su disco indistinguibile dal synth, esplode qui in un luminoso vocalizzo che la nostra sacerdotessa ci regala stando seduta, ripiegata su sé
stessa, in un gesto vocale atletico e impressionante.
Finisce tutto in un’ora, ma il tempo scorre diversamente nel sottosuolo cavernoso in cui si è trasformata la palestra dell’Arci Bellezza. La sensazione è quella di riemergere da una nebbia infinita collocata in un’altra dimensione. È quasi la fine del tour, lei è esausta, hanno finito il merch, a posto così.
A fine concerto, dopo una lunga chiacchierata giù dal palco, Alan Sparhawk ci dirà: “Thank you, you made me feel special”. È la stessa cosa che ci comunica dal palco la ieratica Haley, con una voce inaspettatamente timida e quasi infantile. Non sono frasi di circostanza da concerto italico ma l’espressione sincera di chi ha ricevuto dal pubblico molta più gratitudine di quanto non si aspettasse.
Andiamo a casa con un senso di catarsi raggiunta durante un rito pagano, assolti dai nostri peccati terreni.
“All of our sins throb in the distance / As the Cheshire grins and we fold into existence.”

