In concorso nella sezione Un certain regard dell’ultimo Festival di Cannes, Le città di pianura ha consacrato Francesco Sossai tra gli autori più originali della scena emergente del cinema italiano. Guardando alla migliore tradizione del road movie, il regista costruisce una commedia ironica e al tempo stesso amara, che si trasforma nel racconto poetico di una provincia sprofondata nei propri fantasmi. A cura di Alberto Vigolungo
L’approccio di Francesco Sossai alla narrazione, oltre che la sua ispirazione, legata a un paesaggio ben preciso – il Veneto tanto amato quanto odiato, come ha raccontato in una recente intervista – non può non richiamare subito alla mente il cinema di Carlo Mazzacurati. Ma lo stile si impone immediatamente in modo personale, dando forma ad un universo poetico che mette in relazione dialoghi sperduti e flashback ad un passato più o meno immaginato, a metà tra Fellini e Tondelli, e in cui i luoghi ricompongono geografie spaziali ed esistenziali fortemente evocative. Il tutto, nel tono di una rappresentazione caustica e diretta, che non concede nulla al mondo ritratto: la provincia profonda, con le sue strade che si snodano tra centri urbani desolati e zone industriali dismesse, e i suoi abitanti, comparse smarrite in un presente in cui, come spiega uno degli interpreti, “tutto rema contro”.
Carlobianchi e Doriano, 50enni alla deriva in un mondo di cui da tempo hanno smarrito le coordinate, girano a bordo di una vecchia berlina nella pianura tra Cornia, Treviso e Venezia, passando le notti nei bar locali, alla ricerca dell’”ultima”. L’incontro con uno studente di architettura, Giulio, diventa per i due il pretesto di una nuova avventura, prima che quest’ultima si trasformi in un’esperienza più intima e ricca. Tra serate alcoliche, vecchie storie e un intrigo che riguarda un loro amico, “Genio”, di ritorno dopo una vita da fuggiasco in Argentina, il viaggio di questo improbabile trio lungo le provinciali del basso Veneto si conclude con un addio che reca sfumature differenti: per i due uomini, la definitiva certificazione del fallimento di tutto ciò in cui avevano creduto, riflesso nella parabola di Genio; per il giovane, una nuova consapevolezza di sé e dei propri sentimenti.

Le città di pianura è innanzitutto un film sulla nostalgia e il senso di smarrimento di una generazione improvvisamente impoverita del benessere che ne aveva contraddistinto la giovinezza. È, in particolare, la nostalgia degli anni Novanta, di un’euforia da ultimo ballo che si riflette nell’auto a bordo della quale i protagonisti viaggiano nella notte padana, nel monumentale viadotto di cemento che li sovrasta in una scena in cui Doriano vomita un cocktail di gamberetti, nel ristorante in cui erano soliti celebrare successi personali e affari, chiuso da anni. “Ma avete scoperto il segreto del mondo-mondo, o del vostro mondo?”, chiede Giulio ai due amici durante una passeggiata in una grigia mattinata veneziana. “Che differenza c’è?”, risponde Carlobianchi, con una domanda retorica che dice più di mille parole. Il “mondo” di questi due “ex” ragazzi di paese, figli del boom, un po’ vitelloni un po’ canaglie, è quello finito con la crisi del 2008, con il declino di una certa economia e della sua imprenditoria, e del suo mito. In questo senso, i due protagonisti sono i superstiti sgangherati di una generazione cresciuta nel mito di una prosperità senza fine e gettata ai margini dai risvolti della globalizzazione: come se la loro vita fosse tutta racchiusa tra questi estremi. In questa raffigurazione tragicomica di una certa generazione spaesata dell’Italia profonda, il regista non mostra alcuna pietà, come si osserva nella scena girata in un bar sulla provinciale, che potrebbe benissimo essere un diner del Texas, che si conclude con l’amara battuta di un viaggiatore tedesco nel piazzale illuminato dalla luce azzurrina dei neon. È su questo senso di perdita, e sul trauma che da esso deriva, che i due uomini fondano la loro visione della realtà.
In una storia dai vaghi echi tondelliani, in cui vizi e contraddizioni di una generazione vengono messi a nudo in modo caustico, il girovagare stanco di Carlobianchi e Doriano tratteggia la parabola di un Altri libertini al contrario. Perché i nostri non sono né giovani né giovani uomini ma, riprendendo una battuta dello stesso Doriano, “troppo vecchi per crescere”. A questa condizione senza futuro né scopo, in cui l’amicizia è l’unico valore rimasto, e tutto passa attraverso uno sguardo alterato (che riecheggia nelle interferenze blues della musica di Krano), si affianca l’incertezza di Giulio, dietro la facciata di studente diligente e determinato. La sua difficoltà a costruire una relazione più profonda con la ragazza di cui è innamorato, subito colta dai due, lo spinge a superare le resistenze iniziali e infine ad accettare la loro bizzarra offerta di “apprendistato”, in cui la ricerca dell’ultima bevuta si arricchisce, poco alla volta, di piccole lezioni esistenziali. Spostando il proprio baricentro narrativo su questo personaggio, l’opera evolve nel racconto di un rito di iniziazione, prima che il giovane restituisca ai vecchi un’ultima lezione, tra i suggestivi simbolismi del Memoriale Brion.

Rispetto a questa realtà provinciale decaduta, Le città di pianura compone un vero e proprio universo poetico che affida al dialogo gran parte della sua pregnanza, ma anche e soprattutto alle immagini, dense di suggestioni fotografiche e letterarie che l’autore stesso collega a Ghirri (significativa, in questo senso, l’immagine di una finestra attraversata dalla luce rossa di un semaforo, nella sequenza iniziale del film) e Celati, passando per Piovene. Sul piano più strettamente cinematografico, risulta evidente, fin dalle prime inquadrature, l’influenza di maestri come Wenders e Kaurismäki, nella fotografia dai colori saturi, in una scala cromatica che varia dal verde al grigio (quello del cemento dei condomini della periferia di Treviso, ma anche delle architetture astratte di Carlo Scarpa) e in alcune soluzioni di regia, come i carrelli laterali che ritraggono paesaggi dalla metafisica a tratti dechirichiana. Ed è proprio nella lettura di due luoghi altamente simbolici (la villa settecentesca di un conte e la tomba Brion) che Giulio completerà la metafora del film, il suo senso di inesorabile declino.
Dopo l’esordio frainteso di Altri cannibali (2021), il nuovo lungometraggio di Francesco Sossai si allontana da premesse forti lasciando spazio ad un’opera libera e ardente, che presenta tutte le credenziali di un piccolo gioiello del cinema indipendente italiano degli ultimi anni: un film spietato rispetto al mondo che mostra, ma anche, irresistibilmente autentico e fiducioso nel valore delle relazioni. In questo incontro generazionale disinteressato, amaro e al tempo stesso picaresco, che sfocia nel finale catartico di Giulio, il regista bellunese non resiste infatti alla tentazione di un’apertura, nonostante tutto, gettando una luce sulla bellezza dietro l’inaspettato, su ciò che resta dopo la deflagrazione, come un’incisione su un vecchio tavolo d’osteria.
