Intervista con Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla, co-fondatori e direttori artistici del “Festival delle Colline Torinesi – Torino Creazione Contemporanea”, rassegna teatrale che quest’anno compie 30 anni e torna a Torino dall’8 ottobre al 3 novembre 2025, con 16 spettacoli in 7 diverse location della città. A cura di Martina Saule.
Oggi inaugura la trentesima edizione del “Festival delle Colline Torinesi – Torino Creazione Contemporanea“, un’istituzione che, dal 1996, ha portato a Torino 603 spettacoli di cui 157 recitati da performer provenienti da 38 Paesi; il tutto toccando ben 336 luoghi. Numeri importanti, che fanno da testimoni a un festival che negli anni ha saputo trasformarsi, ampliando il suo sguardo non solo sulla città, ma anche sul mondo intero.
Una visione riconfermata quest’anno. Dei 16 spettacoli in programma dall’8 ottobre al 3 novembre 2025, tantissimi provengono da oltre i confini italiani, compreso Historia del Amor della compagnia catalana Agrupación Señor Serrano, che aprirà la rassegna proprio questa sera al Teatro Astra, organizzatore del festival.
Ma le location sono ben sette, divise tra Torino e prima cintura. Oltre al Teatro Astra, ci sono la Fondazione Merz, il Teatro San Pietro in Vincoli, il Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, il Palazzo degli Istituti Anatomici, le Fonderie Teatrali Limone di Moncalieri e il Le Roi Music Hall, sede dei festeggiamenti per i 20 anni di Sotterraneo (doppio compleanno quest’anno) con un’originale combinazione tra DJ set e teatro.
Spazi a cui si aggiungono quelli della programmazione off “Intorno al Festival”: il Cinema Massimo, il Circolo dei Lettori, il Teatro Gobetti, il Palazzo della Radio RAI e il Parcheggio Lancia, dove sarà allestita la mostra fotografica che celebra il trentennale attraverso gli scatti di Andrea Macchia.
Una programmazione vastissima che, per dare ancora qualche numero, conta inoltre di 7 prime nazionali o assolute. Come iGirl, opera nata dall’unione di quattro artiste – Marina Carr, Federica Rosellini, Rä di Martino e le musiche di Daniela Pes, tra pochissimo al C2C – in scena questo weekend, dall’11 al 12 ottobre.
A raccontare il resto del programma, però, lasciamo che siano Isabella Lagattolla e Sergio Ariotti, co-fondatori e direttori artistici del festival sin dalla sua primissima edizione.

Partiamo dal fatto che quest’anno ricorre il trentennale del festival. Cos’è cambiato dalla prima edizione del 1996 e cosa invece è rimasto immutato?
Isabella Lagattolla: Il festival è cominciato, come dice il suo nome, nelle ville, nei castelli e nei borghi della collina torinese. La prima edizione fu il 10 luglio 1996, a Villa Bria.
Per una decina d’anni è rimasto in collina, ma poco a poco è sceso verso Torino: abbiamo iniziato con i battelli sul Po, la tranvia di Superga, e poi il festival è diventato sempre più metropolitano.
I cambiamenti sono stati notevoli. Siamo passati dalle prove d’attore nei parchi privati e nelle ville – dove gli artisti erano a stretto contatto con il pubblico – a spettacoli un po’ più complessi. Uno fra tutti: la prima presenza della Socìetas di Romeo Castellucci alla Palazzina di Stupinigi, con uno spettacolo da Céline, Voyage au bout de la nuit.
Poi abbiamo dovuto rientrare nei teatri. Non ne eravamo mai del tutto usciti: qualche spettacolo al chiuso avevamo continuato a proporlo, anche perché in collina i nostri nemici erano le zanzare e la pioggia. Il festival si svolgeva inizialmente a luglio, poi a giugno; come tutti i festival, ha cambiato pelle, e dopo il Covid siamo passati all’autunno.
Con l’autunno abbiamo recuperato un pubblico giovane, perché d’estate i ragazzi hanno gli esami, la fine della scuola, le vacanze. E così dal 2021 il festival è autunnale.
Anche quest’anno le location, tra l’altro, sono molte, ben sette. Questa formula di “festival diffuso” è sempre stata una caratteristica? Quanto influisce il contesto rispetto all’opera teatrale? Penso ad esempio allo spettacolo diretto da Sergio Ariotti, L’Ispezione, che si tiene all’interno del Palazzo degli Istituti Anatomici, dove viene rappresentata un’autopsia. La location è importante anche da questo punto di vista?
Isabella Lagattolla: È importantissima. Cerchiamo sempre di vedere gli spettacoli in anticipo, oppure, se nascono apposta per noi, di collocarli nello spazio più adatto per valorizzarli. Questa idea di festival diffuso è un retaggio positivo delle origini in collina: il primo anno invademmo 11 comuni con 33 sedi, tre per ciascun comune!
Quest’anno, a Torino, in occasione del trentennale, abbiamo rispolverato spazi storici come il Palazzo degli Istituti Anatomici, il Museo del Risorgimento (dove andiamo per la prima volta), e il Dancing Le Roi, dove facciamo proprio un DJ show: il pubblico deve stare in piedi e ballare, non può restare seduto ad ascoltare, sennò non funziona lo spettacolo.
Poi ci sono i nostri luoghi abituali: il Teatro Astra, che è la nostra casa, e la Fondazione Merz, che è una seconda casa.
Riguardo al programma del trentennale: come è stato costruito il calendario? È molto variegato: ci sono spettacoli classici, ritorni celebri come la compagnia Motus, e perfino dialoghi tra DJ set e teatro.
Sergio Ariotti: Intanto c’è una componente internazionale piuttosto importante. Abbiamo compagnie che arrivano dalla Spagna, dalla Francia, un autore egiziano, Lina Majdalanie e Rabih Mroué che sono libanesi, poi ci sono i Rimini Protokoll, che sono una compagnia svizzera ma con interpreti di Taiwan, un’artista americana di origini cipriote, Maria Hassabi, e molti altri spettacoli internazionali. Rispetto alle prime edizioni, questa è una novità significativa.
Alcuni spettacoli li abbiamo scelti vedendoli di persona, altri non li abbiamo potuti vedere perché sono prime nazionali, ma ci fidiamo di interpreti e compagnie. Ad esempio Historia del Amor, che ha debuttato da poco in Spagna, lo vedremo anche noi come il pubblico per la prima volta.
Segnalo anche Tiziano Cruz, artista argentino che racconta la storia di una comunità andina pre-coloniale, cioè prima dell’avvento degli spagnoli. Lui farà anche – e questo è piaciuto molto – un laboratorio di panificazione al Teatro Astra che evocherà le forme di pane di quella zona meravigliosa del nord dell’Argentina, ai confini con le grandi montagne andine. Il suo spettacolo, Wayqeycuna (“fratelli” nei dialetti andini), è uno dei titoli più originali di quest’edizione. Ci sono poi omaggi alla memoria, come Autour du corps della compagnia svizzera Arnaboldi dedicato al Bauhaus.
Non mancano proposte italiane molto curiose. Ad esempio Elena Cotugno interpreta Giacomo Matteotti – lei, donna, attrice, che si esibisce nei discorsi del ’21 e del ’24 di Matteotti; o Paolo Musio che presenta l’Eneide integrale alla Fondazione Merz; e poi Benedetta Parisi, una giovanissima, propone uno spettacolo itinerante.
C’è anche un testo di Aldo Salassa, agli Istituti Anatomici, di cui curo io la regia: si chiama L’Ispezione ed è dedicato a Emilio Salgari, ma anche a una figura non molto conosciuta di un medico italiano di Guastalla, ma torinese d’adozione, che non giurò fedeltà al fascismo, perdendo il suo incarico nelle Carceri Nuove e come Direttore dell’Istituto di Anatomia. Fu uno dei casi di coraggiosa resistenza al fascismo.
Da menzionare la presenza di Federica Rosellini, che proporrà uno spettacolo in collaborazione con il Teatro Astra e la Fondazione TPE. Tra le giovani compagnie con il “vento in poppa” in questo momento segnalo Il Mulino di Amleto, che propone un Giulio Cesare di Shakespeare con elementi contemporanei. Torna anche Valter Malosti, uno dei fondatori del festival, presente fin dalla prima edizione.
Historia del Amor tra l’altro è anche lo spettacolo di apertura del festival. A proposito delle compagnie straniere: ci sono maggiori difficoltà organizzative nel proporre spettacoli internazionali al pubblico italiano?
Sergio Ariotti: Sì, è più complicato – sono più complesse da rintracciare e da gestire – ma in un contesto culturale come quello italiano è doveroso. Spesso ci rifugiamo in un certo “sciovinismo” nazionale, invece bisogna assolutamente che, sia il pubblico che altri artisti, vedano cosa stanno combinando in questo momento in Francia, piuttosto che in Spagna. È un modo per rimescolare le carte, rispetto al quale i festival hanno un ruolo preponderante.
Se le stagioni a volte trascurano un po’ gli spettacoli internazionali, che costano di più, è perché il sistema teatrale italiano è un po’ più depresso da quel punto di vista. Siamo felici di riuscire a farlo per questa trentesima edizione.
Mi ha colpita l’opera presente nella locandina, “Moti Umani” di Marzio Zorio: mostra un sismografo che anziché rilevare le vibrazioni del terreno, trascrive quelle dell’umanità. In che modo questa visione si lega al festival?
Sergio Ariotti: Viviamo un momento complicato e pensare ai “moti umani” in senso positivo è doveroso. Il nostro festival ha sempre avuto una forte componente civile e politica.
In questi giorni siamo molto felici perché un nostro spettacolo che richiamava la condizione di un blogger egiziano, ingiustamente incarcerato, proprio in questi giorni è stato liberato. Siamo assolutamente consapevoli che non è stato il nostro spettacolo a farlo liberare, ma almeno abbiamo contribuito a un’onda lunga. Si chiamava Alaa Abd el-Fattah, lo trovate nel festival di due anni fa.
Quest’anno invece ospitiamo i Rimini Protokolll con un lavoro su Taiwan e sull’isolamento politico dovuto alla pressione cinese – un tema attualissimo, e quindi abbiamo accettato con piacere di ospitare la compagnia.
E poi, ci teniamo a ricordarlo, anche il segno d’artista di Marzio Zorio — in cui ci sono tre “X”, a indicare le 30 edizioni — è percorso da una linea sinusoidale, come una traccia audio, che nelle nostre intenzioni vuole rappresentare le voci di tutti quelli che hanno parlato al festival, ma anche di tutti quelli che in questi giorni stanno prendendo posizione sulle assurde guerre del nostro paesaggio contemporaneo.
Speriamo che queste voci vengano ascoltate. Per concludere: dopo trent’anni, quali traguardi sentite di aver raggiunto e quali restano da raggiungere?
Isabella Lagattolla: Di sicuro, sempre più internazionalizzazione. Noi siamo felici e orgogliosi di questi trent’anni anche perché la direzione, condivisa, lo è dalla primissima edizione. Dalle edizioni in cui scollinavamo ad adesso, che siamo più metropolitani, abbiamo aumentato gli spettacoli e l’impegno di tutti con la Fondazione TPE e con la Fondazione Merz.
Il futuro, direi, è proprio l’internazionalizzazione: cercare di aprirci sempre più all’Europa. È una cosa che noi sentiamo molto e che il pubblico sente con noi. Lo vediamo già dalle prime vendite: gli spettacoli internazionali vanno benissimo, segno che c’è voglia di capire cosa accade oltre i confini italiani.
