Tra autodistruzione e identità fluida, sfidando le convenzioni narrative e abbandonando lo spettatore sospeso tra dolore e mistero. Articolo a cura di Fabio Taravella.
L’occasione è quella della proiezione speciale (organizzata da Lucky Red in tutta Italia), del 17 di Luglio, in collegamento diretto con un Luis Ortega che si presenta in video al naturale, quasi come se fosse stato colto di sorpresa, e quindi senza filtri proprio come l’ultima opera realizzata. El Jockey ha debuttato in concorso all’81a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2024 ed è stato distribuito solo di recente nelle sale nazionali: una creatura ibrida che danza in maniera spietata nei territori del noir ma che ha dentro di sé diverse personalità come quelle del protagonista Remo Manfredini, alter ego Buster Keatoniano, del regista stesso.
Ortega, figlio d’arte di Palito, famoso cantante pop argentino, racconta di una gestazione complessa; non a caso durante la lavorazione la moglie, in dolce attesa del figlio, pronunciò quella che diverrà una battuta centrale del film: “Se vuoi risolvere questa situazione devi morire e rinascere di nuovo” (dirà anche Abril al suo “amato” in un momento di scoramento), un concetto che dà il via alla romantica imagination del regista, leitmotiv incalzante, unicamente ostacolato dai limiti imposti dalle politiche commerciali della produzione. Si parla infatti di una pellicola che originariamente sarebbe dovuta essere diversa, più libera, senza una precisa traccia narrativa, una sorta di flusso di coscienza che prende a piena mani da “Il Vagabondo delle Stelle” di Jack London, un composto d’inquadrature, prevalentemente fisse, teatrali, classiche, da cinema muto, ma con l’urgenza, stilisticamente contemporanea, di una confessione personale. Uno dei punti deboli, infatti, è la poca coesione tra la parte più intima e quella, palesemente posticcia, imposta, del racconto di genere gangster, iniezione non necessaria di una maggiore azione scenica.

La fotografia è affidata al grande gusto di Timo Salminen, abituale collaboratore di Aki Kaurismäki, capace di trasformare la malinconia in luce: neon pallidi, controluce lattiginosi, angoli in ombra che custodiscono più verità dei dialoghi.
Il brutto permea la scena, il rifiuto della levigatezza è consapevole al pari della ricerca di una retorica della bellezza “salvifica”. il corpo del protagonista è marcato dalla dipendenza, dalla fame, da una femminilità trattenuta e poi lasciata fluire in forme che il mondo continua a rifiutare. È un corpo che non si adatta al binario uomo/donna, né a quello vivo/morto. Il travestimento non è un’esibizione, è un gesto reale. E proprio lì, dove lo spettatore potrebbe ridere o provare imbarazzo, accade qualcosa di fragile, che non si può più ritrarre. Nulla è provocazione superflua, tutto è gesto d’amore.
Alla fine dell’intervista, l’autore stesso, si raccomanda di non cercare obbligatoriamente il significato, potrebbe arrivare con il tempo, potrebbe addirittura non arrivare, sardonicamente ammette che per lui non è ancora arrivato ed infine congeda il pubblico con un fragoroso: “BUONA FORTUNA!”.
Rimane un tentativo sincero ma non sempre efficace. Possibile che la forza sia proprio nell’incompletezza e la conseguente inquietudine che genera, ma la sensazione generale è che le troppe difficoltà citate abbiano portato ad una ingiusta mediocrità generale.

