“We’ll meet again… some sunny day” è la canzone/cornice del Moby Dick scritto e interpretato da Angelo Tronca, con la produzione di A.M.A. Factory, dura esattamente tre minuti e tre secondi, proprio come la lettura di questo articolo. Articolo a cura di Jul Marchiani.
“Almeno noi nell’universo” suggerisce il claim di questa rassegna di spettacoli omonima di Fertili Terreni Teatro e questa sera non fa eccezione. In questa occasione si entra nelle ecatombe dell’ingegno di Achab, nella chiesa sconsacrata dove le candele allungano le ombre. È qui che ci vuole Ismaele per sussurrarci, sbraitare nelle orecchie, con la voce stessa del suo capitano.
La mente si insegue piano, l’attore cammina da un lato all’altro, si ferma, si siede, ma dal suo microfono alle cuffie degli spettatori la voce arriva frenetica. E non si vede quasi niente, si potrebbero chiudere gli occhi, se non si rischiasse di perdere tutto: il ventre della nave, la poppa, le pareti bianche di una clinica. No, si deve guardare, anche nella penombra.

È vero che il testo e il sound design, in questo caso, fanno quasi tutto. Generano uno spettacolo che prende vita nella sua scenografia.
Una lettura visibile, parole tangibili, ma inafferrabili: che si dissolvono nel momento in cui protendi la mano. Oppure, raramente, ti afferrano: tirandoti fuori dalla grotta delle ombre dove tutto è possibile; rigettandoti nell’accecante contemporaneo con menzioni di biciclette; la voce di Billie Eilish; e poi l’ospedale. Così non fosse, avresti il tempo di diventare anche tu un giovane mozzo, o il capitano di una baleniera, ma si sa anche le cose belle debbono finire.
E allora chi non ha aperto gli occhi durante il tiro alla fune con Dio, si vedrà sulle palpebre proiettata la luce rossa pulsante del cuore in cui l’arpione attaccato alla fune si è conficcato, maestoso e sanguigno, quasi glitterato.
L’unione forse non del tutto consapevole di intimità; contesto letterario; ed elementi pop è proprio la caratteristica che, più di tutte, ti tira fuori. Capiamoci: questo spettacolo non è accogliente, piuttosto ci fa sprofondare nella scrittura e nell’ambientazione come negli inverni febbrili, nella tua cameretta, quando il piumone ti si stringeva addosso, assillante, come in sogno, prima di prendere la terza tachipirina.
Fino al finale, fronte a fronte: «Chiamami Ismaele.»
“But I know… we’ll meet again… we’ll meet again some sunny day…”
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Articolo a cura di Fertili Terreni e Scuola Holden
