Si è appena conclusa a CAMERA Torino la mostra dedicata al lungo e proficuo incontro tra il nostro Paese e il grande fotografo, con oltre 160 scatti provenienti dalla sua fondazione: un patrimonio che racconta, nelle solitudini dei bar di provincia o nell’evento inatteso di una grande piazza romana, le trasformazioni economiche e sociali dell’Italia del ‘900. Di Alberto Vigolungo.
Nel 1932, all’inizio di una carriera che lo porterà ad essere considerato l’”occhio del secolo”, Henri Cartier-Bresson compie il suo primo viaggio in Italia, in compagnia degli amici André Pieyre de Mandiargues e Leonor Fini, conosciuti al tempo della sua frequentazione con gli ambienti d’avanguardia parigini. Pur avendo scelto da poco la fotografia come mezzo privilegiato per esprimersi nel campo delle arti figurative, la sua fama sta già assumendo un rilievo internazionale: del ’33 è la prima mostra newyorkese a lui dedicata, un’esposizione collettiva allestita dalla galleria Julien Levy, in cui i suoi scatti sono presentati accanto alle opere di Walker Evans.
In questo suo primo viaggio, il fotografo ventiquattrenne si dedica ad un itinerario che, da Trieste a Salerno, lo porta a visitare le principali città d’arte del nostro Paese, iniziando a sviluppare quello studio sul rapporto tra individui e spazio pubblico che diventerà uno dei tratti distintivi della sua poetica visiva: lontano dai canoni della ritrattistica tradizionale, lo sguardo del giovane Cartier-Bresson si focalizza così sulla vita del popolo, che brulica nei vicoli delle città del centro Italia, con i loro bar ombrosi e gli uomini seduti a guardare i passanti, nei mercati, nei giochi dei bambini proiettati sullo sfondo di strade e piazze che evocano un passato antico. Di questa serie fanno parte anche i giocosi ritratti e autoritratti realizzati nei pressi di Trieste, che uniscono la capacità straordinaria nella composizione alla vena surrealista che aveva profondamente influenzato il Cartier-Bresson pittore.

È l’inizio di un lungo ed intenso rapporto, che vedrà il fotografo “giramondo” ritornare periodicamente nel Belpaese nei successivi quarant’anni, ora per soddisfare un semplice piacere personale, ora per realizzare servizi commissionati dalle più prestigiose riviste internazionali o dalle committenze dell’industria; un legame sottolineato pure in una lettera del collega e amico Robert Capa, con il quale, insieme ad altri pionieri del fotogiornalismo, fonda nel 1947 la gloriosa agenzia Magnum.
Il secondo capitolo di questa storia si sviluppa tra il 1951 e il 1952, quando Henri Cartier-Bresson, ormai divenuto il reporter più celebre della sua epoca (continuamente conteso tra “Life”, “Harper’s Bazaar” e “Vogue”), con alle spalle una prima mostra personale al MoMA di New York, si dedica ad un soggiorno tra il Centro e il Sud Italia, per realizzare una serie di reportage. A Roma, in particolare, ritorna sui soggetti immortalati vent’anni prima, in un Paese che, ancora ferito dai traumi della guerra, sta tentando faticosamente di rialzarsi. Nel passeggiare per le strade della capitale, l’obiettivo della sua Leica 1 si esercita costantemente sui legami tra individui (spesso bambini o anziani) e luoghi, che a partire dagli anni Cinquanta vedranno la città esplodere come meta favorita del turismo internazionale. A Cartier-Bresson le atmosfere romane interessano nella misura in cui dialogano con il presente, con l’energia del suo popolo, cogliendo con precisione quasi profetica un momento di passaggio dopo il quale nulla sarà più come prima. In questo senso, se le scene di vita quotidiana immortalate nei vicoli del centro storico e nelle piazze monumentali potrebbero appartenere ad ogni tempo, o comunque ad un’epoca non lontana da quelle scattate dallo stesso autore vent’anni prima, le insegne della Coca-Cola che sovrastano gli uomini seduti ai tavolini dei bar di quartiere restituiscono le avvisaglie di un Paese in trasformazione, già proiettato al boom di fine decennio.
L’indagine di Cartier-Bresson sulla realtà politica, economica e sociale italiana non si limita tuttavia ai centri urbani, ma si estende al mondo rurale, che ha nel Mezzogiorno il suo emblema più complesso e contraddittorio. Luogo dove, come scrivono i curatori della mostra, “si gioca la grande partita della modernizzazione del paese a fronte di un’arretratezza economica e di persistenze culturali ataviche”, il Sud ripreso dal fotografo francese a questa altezza è quello delle aree interne dell’Abruzzo e della Basilicata, che attraversa sotto la guida dello scrittore Carlo Levi. Tra i ritratti di città come L’Aquila e Matera, destinate a diventare tra le più celebri della sua produzione (il servizio Natale a Scanno farà il giro del mondo), Cartier-Bresson coglie, con consueta sensibilità e talento compositivo, l’essenza di un piccolo mondo antico, in cui vita e tradizione continuano a coesistere, nel crepuscolo che precede l’inizio di una nuova epoca. Con questa serie di istantanee, il grande fotoreporter consegna un documento dall’inestimabile valore storico, testimoniando una realtà che ancora resiste ai venti di un’industrializzazione già pesantemente in atto in molti distretti del Paese.
Per la loro straordinaria potenza documentaria ed espressiva, punto di approdo cruciale della sua riflessione su temi come identità e modernità, molti lavori realizzati da Cartier-Bresson durante quest’esperienza entreranno a far parte della fondamentale raccolta Les Européens (1955).

Se tra il primo e il secondo soggiorno erano intercorsi vent’anni, durante i quali Henri Cartier-Bresson diventa personalità di spicco della cultura contemporanea (“Il re dei fotografi”: così lo definisce Oriana Fallaci in un servizio apparso su “Epoca” nel 1953), affermandosi nei campi della ritrattistica e del reportage (nel 1948 è in Cina a seguire le vicende che porteranno al potere Mao), il terzo viaggio in Italia del grande fotografo francese avviene soltanto otto anni dopo l’ultimo, ma in uno scenario ormai stravolto. Di nuovo a Roma, segue Pier Paolo Pasolini nelle periferie abitate da un sottoproletariato irrimediabilmente escluso dalle promesse del boom economico, mentre edilizia e motorizzazione cambiano per sempre l’immagine della città. Le vedute dei cantieri che caratterizzano il paesaggio romano sono fin troppo adatte a stimolare la vena surreale degli scatti bressoniani, mentre le immagini del centro storico rappresentano dei veri e propri saggi di quell’”istante decisivo” con cui il maestro francese pone uno dei pilastri teorici della fotografia del ‘900, attraverso istantanee in cui la luce assume il valore di un’epifania; a Napoli, la sua Leica torna ad immortalare la vita del popolo che lo aveva affascinato fin dai primi viaggi, tra sereni momenti di vita collettiva e solitudini pensose.

Anche nell’ultimo viaggio compiuto in Italia da fotografo professionista (1971), durante il quale realizza alcuni lavori su commissione per Olivetti e Alfa Romeo (visitando gli stabilimenti del mezzogiorno), Cartier-Bresson coglie l’occasione per confrontarsi con la questione meridionale, scattando immagini che si fanno via via più rarefatte, dove è la fisicità dei paesaggi (insieme alla pregnanza dei messaggi) a dominare il quadro.
Testimone capitale dei grandi accadimenti del secolo, nonché scrupoloso esploratore della dimensione metadiscorsiva del medium fotografico, in un’epoca “che violenta la natura e disintegra l’immagine” (come dirà in un’intervista del 1964, recentemente ritrovata nelle teche Rai e proposta al termine del percorso espositivo), Henri Cartier-Bresson trova nell’Italia un luogo di osservazione privilegiato, dove matura gli elementi fondanti del suo linguaggio e dove sperimenta tutta la sua inclinazione “umanista”, accompagnando l’intero arco della sua vita da fotografo professionista. Un’esperienza in cui il reporter fissa i cardini del rapporto tra fotografia e realtà nel XX secolo, e per il quale lo sguardo è investito di una responsabilità decisiva. Il tutto, attraverso un approccio tanto diretto quanto discreto verso il soggetto, da “fotografo che non vuol essere fotografato”.
