Celebration. I Pink Floyd a Pompei

Fresco di restauro in 4K, il leggendario film concerto del 1972 è tornato in sala, in concomitanza con il lancio dell’album. Opera che consacrò il rock a performance artistica, valorizzata da un’ambientazione unica, il Live at Pompeii è senz’altro la celebrazione epica di una delle band più influenti del panorama musicale contemporaneo al suo apogeo, ma anche lo specchio di un punto di non ritorno nella storia del rapporto tra rock, arte e industria, sollevando questioni i cui “echi”, ben oltre le suggestioni sonore dell’omonimo brano modulate dalle rovine della città romana, arrivano fino ai giorni nostri. Di Alberto Vigolungo.

Nel 1972, i Pink Floyd attraversano uno snodo cruciale della loro carriera, iniziata in piena temperie Swinging London e affinata dall’”apprendistato” presso gli studi di Abbey Road, teatro privilegiato dello sfolgorante triennio beatlesiano 1967-69. Con alle spalle album come Ummagumma (1969) – la cui suite psichedelica  Careful With That Axe, Eugene sarà inserita da Michelangelo Antonioni nella scena finale di Zabriskie Point, tra i film cult del decennio 70 – Meddle (1971) e soprattutto Atom Heart Mother (1970), il gruppo ha già compiuto la sua svolta progressive e si sta muovendo a grandi passi verso una nuova fase che lo condurrà al pubblico di massa, intraprendendo quel percorso che, passando per The Dark Side of the Moon (1973), Wish You Were Here (1975) e The Wall (1979),  renderà i Pink Floyd l’indiscussa icona musicale del decennio.

Il Live at Pompeii è la vivida testimonianza di una grande band in stato di grazia. Tuttavia, l’idea alla base del progetto non emana direttamente dai quattro musicisti né dal loro management (che nel tempo si rivelerà tra i più abili a trasformare i Floyd in uno dei brand più proficui nella storia dell’industria discografica), ma dalla tenacia di un estimatore. Il “corteggiamento” di Adrian Maben nei confronti del gruppo ormai avviato alla sua “Dark Side era” (come scriverà Nick Mason nel libro Inside Out), era infatti iniziato da tempo. Dopo aver visitato il Parco archeologico di Pompei nell’estate del 1971, il regista britannico – che aveva già contattato l’entourage del gruppo per un altro progetto, poi rimasto sulla carta – propone ai Pink Floyd di girare un film al suo interno in autunno: un progetto audiovisivo “di rottura”, radicalmente diverso dai film concerto realizzati fino a quel momento, e non solo per l’eccezionalità della location. Un’idea che Maben descrive con queste precise parole:

“Un film anti-Woodstock, in cui non c’è nessuno, e la musica e il silenzio e l’anfiteatro vuoto equivalgono, se non superano, una folla di migliaia di persone.”

Un ambizioso esperimento sulla percezione, insomma, in cui lo spazio delimitato dalle vestigia romane e la musica evocativa dei Pink Floyd  si incontrano in un dialogo epico di straordinaria intensità. I ragazzi accettano, ma ad una condizione: questo dialogo si svolgerà in presa diretta. Così, in ottobre, tra notevoli difficoltà tecniche, iniziano le riprese. Il backstage del film non è infatti meno epico del film che si vorrebbe ottenere, perché, una volta arrivati sul sito, troupe e interpreti si trovano a fare i conti con tutti i problemi che si possono incontrare nell’allestimento di un live in un contesto simile, dalla logistica all’approvvigionamento di energia elettrica. La notevole sfida tecnica posta dalle riprese rende inevitabilmente il Live at Pompeii un vero e proprio sfoggio della tecnologia musicale e cinematografica più avanzate dell’epoca, come si osserva nell’imponente set di amplificatori più volte sottolineato dai carrelli laterali di Maben o nell’inquadratura a volo d’uccello che inaugura il film, in dialogo con l’evocativo intro di Echoes.

Il risultato finale di questa operazione risulta non meno affascinante dei dettagli di fregi, mosaici e dipinti mostrati in dissolvenza, confluendo in un’opera nella quale ciascun elemento esprime il proprio stile in un’armonia quasi perfetta, negli assoli apocalittici delle chitarre di  Gilmour (sempre in bilico tra blues e ricerca), negli eleganti tappeti tastieristici di Wright, nel drumming impeccabile di Mason, nelle ritmiche oscure e nelle sperimentazioni elettroniche di un Waters – al pari del collega chitarrista – mcluhaniamente consapevole del dispositivo, come si osserva nelle scene girate in studio, frammenti di registrazioni di quell’opera che diventerà The Dark Side of The Moon.

Esperienza “immersiva” in cui suono (della musica e del vento), luce e calore si combinano in una performance che fotografa la band britannica al suo apice creativo, con la stessa nitidezza con cui il sole fissa le ombre delle figure umane sul suolo dell’antico anfiteatro, il film si fa leggenda in una serie di immagini memorabili: dai quattro a spasso tra le caldere ai piedi del Vesuvio al campo lungo di Roger Waters in controluce intento a suonare il gong, passando per l’urlo di David Gilmour capelli in faccia nella coda finale di A Saucerful of Secrets. Un caleidoscopio visivo e sonoro in cui la macchina da presa è totalmente al servizio del gesto (basti pensare alla camera fissa su Nick Mason in One of These Days) prestandosi così alla celebrazione, ma componendo al contempo la magistrale raffigurazione di una band pienamente consapevole della propria influenza e delle proprie direzioni future (ivi inclusa la possibilità di diventare una colossale macchina da soldi, come poi in effetti avverrà). Così, se da un lato il rock reso mito, incastonato nel tempo immoto delle vestigia romane, si fa anch’esso opera d’arte, dall’altro non è certo nascosta la sua dimensione industriale, come per qualsiasi altro fenomeno culturale del XX secolo. In questo senso, le brevi interviste montate tra un’esecuzione e l’altra aprono spazi di critica (e autocritica) non meno sorprendenti, come si osserva nella sicurezza sfrontata di Waters sulla genesi del disco perfetto, o nelle reticenze fin troppo eloquenti di Gilmour a proposito dei rapporti interni alla band, o ancora nell’ironico pragmatismo di Mason, per nulla riottoso nell’affermare la nuova direzione dei Pink Floyd verso un pubblico di largo consumo.

All’occhio contemporaneo, oltre a risaltare come opera che ha indubbiamente contribuito al “culto” floydiano, il Live at Pompeii spicca come espressione di una consapevolezza del proprio lavoro che oggi sembra non appartenere più molto alle nuove generazioni di artisti, sempre più impegnate a coltivare dimensioni collaterali a quella della creazione. Sotto questi aspetti, il film diretto da Adrian Maben è la fotografia nitida di un momento spartiacque nella storia dell’industria musicale, non solo di quel rock troppe volte dichiarato morto. Ma sempre, maledettamente, vivo. Provate a contraddire Roger Waters (oggi come allora).