Nel secolo delle grandi ideologie, quella di Ėduard Limonov è un’incendiaria parabola di eccessi e volontà di affermazione: una radicale favola individualista al tempo della Guerra fredda. Bastava questo materiale a plasmare un grande racconto: Emmanuel Carrère lo intuì, e nel 2011 pubblicò una delle sue opere più note. Oltre un decennio dopo, subentrando alla regia di un progetto di adattamento arenatosi più volte, Kirill Serebrennikov rilegge quell’epopea soprattutto come simbolo dei traumi subiti dalla Russia nel corso del ‘900, ma anche degli innumerevoli equivoci che di questo Paese l’Occidente continua a farsi. Rifugiandosi in un’estetica “cool” un po’ manierata, Limonov: The Ballad riesce parzialmente in questa operazione, risentendo inevitabilmente dei colpi vibrati dalla storia di questi ultimi anni. Di Alberto Vigolungo
Cantore dello spirito, punk irredento, critico sovversivo, Ėduard Limonov si butta a capofitto nei vortici della storia della Guerra fredda. Operaio in fonderia a Kharkiv alla fine degli anni ’60, da poeta emergente negli ambienti bohémien della città giunge a Mosca con l’obiettivo di consacrarsi e di raggiungere la fama. Qui incontra Elena, modella in vista tra i principali circoli artistici d’avanguardia, con cui instaura una relazione a base di sesso e continue promesse di gloria. Respinto dal sistema editoriale “ufficiale”, si trasferisce con la compagna a New York dove, tra il 1975 e il 1977, la sua parabola lo vede passare da un’esistenza precaria alla strada, costringendolo a fare i conti con l’abbandono della stessa Lena. Nella Grande mela finisce per frequentare altri emarginati, mentre i suoi scritti dovranno attendere anni prima di essere pubblicati.
Il crollo del Muro lo coglie a Parigi, dov’è accolto come una sorta di intellettuale-star della dissidenza antisovietica; rientrato in patria nel 1990, si dedica a tour letterari in cui è celebrato come mito vivente di un mondo ormai passato, ma tutt’altro che morto. Critico nei confronti dell’ascesa di Vladimir Putin, si dichiarerà in seguito oppositore del nuovo regime, prima di appoggiare, da “nazionalista moderato”, l’intervento in Donbass nel 2014; morirà nel 2020, appena prima che la Russia trascini nuovamente l’Occidente negli abissi della storia.
Figura in cui biografia e mito si intrecciano senza soluzione di continuità, gli estremi rappresentano la vera, e forse unica, cifra dell’esistenza di Limonov: una contraddittorietà tanto radicale quanto irrisolta, coerente soltanto nel suo livore sprezzante di ogni ordine imposto. Poeta libertario in patria, non conforme alle categorie convenzionali di “ufficiale” e “dissidente” con cui all’epoca il regime sovietico classifica artisti ed intellettuali, poi milieu alienato nella terra del trionfo del capitalismo e della democrazia, la condizione di Eddie/Ėdička corrisponde, più che ad un “essere nel tempo”, ad una metafora, un fantasma della storia, e per certi versi l’incarnazione bizzarra e oscura delle nevrosi del mondo post-1989: la stessa presenza che, in una delle sequenze cult del film, corre con passo malfermo tra le rovine collassanti di una New York al neon e sul “tappeto” di una cronologia non ancora compiutamente elaborata.
Un comunista indipendente
Guardare alla vicenda umana ed intellettuale di Limonov significa costantemente confrontarsi con un doppio livello: da un lato, quello storico, che vede il giovane operaio Savenko lasciare la vita di provincia per affermarsi come artista ed intellettuale nella capitale, sotto lo pseudonimo che manterrà con la stessa ostinazione con cui rivendica la propria libertà, quindi diventare uno dei riferimenti più controversi della dissidenza sovietica tra Stati Uniti e Francia prima, e del putinismo poi; dall’altro, quello letterario, il cui esclusivo riferimento coincide con la biografia romanzata di Emmanuel Carrère, che insiste sul tratto “maledetto” del personaggio e sul suo indomito, radicale spirito di opposizione a tutte le ideologie, tranne una: quella del destino individuale.
Valori da cui deriva una duplice, incrollabile fede: in sé stesso e nella storia. Al di qua e al di là della “cortina di ferro”, mentre la Guerra fredda accelera verso la sua conclusione e i nostalgici inveiscono inutilmente contro la Perestrojka di Gorbaciov, questo tratto costituisce il vero elemento distintivo del protagonista. Nietzschiano più che marxista, in Limonov si rintraccia addirittura uno slancio pasoliniano, che si manifesta in un paio di autodefinizioni (“Io sono il passato, e il passato non ha nulla da insegnare al presente”; “Io sono un comunista indipendente”); un’idea di rivoluzione come predisposizione dello spirito, prima ancora che come strumento di lotta politica.
Tutti questi aspetti si innestano nella caratterizzazione di una sorta di eroe romantico fuori tempo, la cui fiamma ribelle è senz’altro ostacolata nella patria dell’ortodossia comunista, ma anche nella terra delle opportunità. Nel film, l’”essenza” del personaggio è resa soprattutto da soluzioni convenzionali, decisamente incentrate sulla figura e l’espressività di Ben Whishaw, e ben valorizzate in una fotografia dai toni scuri, che passa con disinvoltura dal bianco e nero dell’epopea moscovita al colore allucinato della New York underground di fine anni Settanta.
Fuck Solženicyn
Contestuale alla definitiva separazione dall’ortodossia (e all’esilio che ne consegue), il viaggio di Limonov a New York assume i tipici connotati della “tappa” da romanzo di formazione.
Dall’omologazione sovietica a quella capitalista il passo è tuttavia più breve di quanto atteso, con la differenza che a Manhattan il protagonista si riduce ad una sorta di predicatore dell’apocalisse, uno dei tanti. La “caduta” di Eddie nella città simbolo stesso della libertà è rovinosa, sul piano economico (dai lavoretti cui si dedica in attesa della consacrazione passa rapidamente alla condizione di senzatetto) e sentimentale (è abbandonato dalla stessa Lena, che, da modella corteggiata dagli atelier nei pressi di Washington Square accarezza il sogno di entrare nel mondo della moda, per poi ridursi a prostituta dei quartieri alti di Manhattan).
Nel periodo newyorkese, l’eccentrico outsider sperimenta di fatto una condizione di emarginato ben peggiore di quella lasciatasi alle spalle in patria, confrontandosi tutt’al più con bizzarri milieu, non certo con gli altri intellettuali espatriati che alla fine degli anni ’70 riempiono le sale dei circoli letterari più chic: tra questi, proprio quell’Aleksandr Solženicyn che il protagonista disprezza come un nemico “ipocrita” della rivoluzione. Così, l’immagine tremolante del leggendario autore di Arcipelago Gulag sullo schermo di un televisore portatile nell’oscurità di una scena di sesso aleggia come uno spettro delle contraddizioni dello stesso, del conflitto tra il suo anelito alla celebrità e il suo rifiuto di qualsiasi compromesso; il simbolo di uno status che, per tutta la durata della sua permanenza negli USA, non può che continuare a rimirare da lontano, o – una volta entrato in servizio come domestico presso la casa di un facoltoso uomo d’affari – vederselo sfilare davanti, servendo da bere all’ennesimo, illustre ospite: manco a farlo apposta, l’ultimo letterato dissidente russo.
Fine della storia e altre imposture
L’approdo in Europa concede però a Limonov di recitare la parte che in America gli era stata negata. Romanziere celebrato come oscuro profeta della fine di un mondo, nel 1989 si trova a Parigi: ospite di trasmissioni televisive e radiofoniche, rilascia interviste al vetriolo su un Occidente che, apprestandosi a vincere la Guerra fredda, si arroga il compito di porre fine alla storia.
Dopo la caduta del Muro, Eddie è di nuovo a Mosca, dove assiste agli ultimi colpi inflitti dalla Perestrojka al corpo del regime sovietico. Il punto di vista sul Paese abbandonato vent’anni prima è quello di un tour letterario in cui il protagonista non si sottrae all’immagine di scrittore maledetto al centro di quasi tutte le domande del pubblico, spaccato di un popolo disorientato ma pur sempre in qualche modo consapevole dell’ineluttabilità della storia: una storia che continua a bussare alla porta, finché qualcuno non apre. Una storia di cui Ėduard Savenko, in arte Limonov, è insieme testimone e profeta.
Al di là del suo carattere incompiuto (figlio anche di una vicenda produttiva a dir poco travagliata, che ha visto l’avvicendamento di ben tre cineasti alla regia), Limonov: The Ballad riesce comunque a sbattere in faccia allo spettatore con la stessa veemenza del suo protagonista una verità rimasta sepolta per quasi trent’anni, prima che l’inizio di questo decennio la risvegliasse in tutta la sua devastante drammaticità: Francis Fukuyama aveva maledettamente torto. Adattando il proprio stile agli svolazzi di questo intellettuale nomade del “secolo breve” (attraverso un filmico dinamico, che prevede il frequente ricorso alla macchina a mano) reso celebre dal romanzo di Carrère – la cui apparizione, in una scena di dialogo verso il finale, aggiunge una nota piacevolmente ironica – e optando per un’estetica underground un po’ patinata ma di sicuro appeal (corroborata dalle musiche di Lou Reed e Billy Idol), l’opera di Kirill Serebrennikov segue senza troppi guizzi il gran ballo di Limonov nel fuoco dell’ultimo ‘900.