Jazz is Dead è diventato grande

Il festival dedicato alle sonorità meno allineate ed etichettabili giunge alla sua settimana edizione: non quella della perfezione (per fortuna: la perfezione non esiste ma soprattutto non ci interessa!) bensì quella della maturità artistica e di un consistente upgrade numerico. Primo giorno in una dimensione onirica, secondo giorno avvolti dal groove, terzo giorno travolti dal rumore: vi raccontiamo le settima edizione di Jazz is Dead. Reportage a cura di Lorenzo Giannetti.

Non è facile cominciare un festival dovendo fronteggiare una tempesta di grandine di proporzioni mai viste prima da queste parti, una sorta di piaga biblica tra l’equatoriale e l’apocalittico. L’allarme meteo di metà pomeriggio rallenta l’arrivo dei fedelissimi del festival al Bunker e fisiologicamente tutta la scaletta della serata ma non intacca lo spirito battagliero di Jazz is Dead: “Non può piovere per sempre” gridano le stories di IG il nostro capitano Alessandro Gambo e la sua ciurma,  citando quel Corvo che poi è diventato anche l’animale-guida del festival e invitando il pubblico a non demordere di fronte alle intemperie.

Spiace perdersi parte dell’interessante talk di apertura – era il primo in assoluto organizzato dal festival, rifacciamolo! – ovvero la presentazione del libro BASTA NOW di Fanny Chiarello col contributo della musicista Valentina Magaletti, ormai affezionata presenza a JID. Un progetto che per la prima volta cataloga e racconta di artiste donne, non binar e transgender nell’ambito della musica sperimentale, arrivando a contare più di 2000 nomi.
Un volume unico nel suo non-genere che abbiamo il piacere almeno di sfogliare nel corso della serata al banchetto del merch, che ci offre una delle chiavi di lettura più folgoranti del concept stesso di Jazz is Dead:

“The most exciting for me are these wild, unbridled creators, whose creativy, curiosity and approach to music aren’t hemmed in or reduced by any framework”: ecco le linea-guida per una line up di Jazz is Dead.

Massimo Silverio si ritrova a salire sul palco subito dopo il delirio logistico dovuto all’aperitivo con grandinata ma la sua voce è così ammaliante da riconciliarci col mondo: forte di uno dei progetti discografici più interessanti usciti quest’anno, il talento friulano trasfigura il dialetto della sua terra mescolandolo con l’inglese in una operazione non troppo lontana da quella con cui Jonsi plasma la lingua “speciale” dei Sigur Ros. La tempesta è passata e l’ambient folktronica di Silvero (debitrice anche dei Radiohead più eterei) riesce nell’arduo compito – stavolta letteralmente – di sciogliere il ghiaccio.

Quella di Moritz Von Oswald invece è una vera e propria lezione di stile, nonché una delle esibizioni in ambito elettronico meglio congeniate a cui io abbia assistito negli ultimi anni (fa il paio, volendo, con la sontuosa apparizione della divinità-aliena Suzanne Ciani al Cinema Massimo per la preview di JID). Una sinfonia techno rarefatta che sviluppa una sua narrazione in maniera placida ma costante e senza quasi fartene accorgere di traghetta più lontano di quanto ti aspettassi: insomma quella cosa apparentemente semplice che riesce solo ai fuoriclasse.

Nonostante il dandy Von Oswald ci abbia fatto perdere le coordinate spazio-temporali catapultandoci in un’altra dimensione, tocca fare i conti con timeline e logistica: da una parte l’atteso ritorno in città di sua Maestà Williams Basisnki, dall’altra la combo formata da Salogno-Magaletti. Quest’ultima, purtroppo, diventa una esibizione a porte chiuse, per insormontabili problemi tecnici maturati nel corso del temporale. Verrà trasmessa in diretta nell’arco del programma Battiti di Radio3. Spiace, in primis agli organizzatori che tanto ci avevano scommesso, ma di fronte ad una quasi calamità naturale invito tutti alla comprensione, nella speranza di rivedere presto entrambe da queste parti. Stavolta dunque lascio parlare le immagini in video registrate come di consueto dalla camera di URSSS:

MARTA SALOGNI & VALENTINA MAGALETTI

Allo stesso tempo non posso raccontare il concerto di Basinski, avvenuto in contemporanea. Tuttavia il caro vecchio Basinski è un personaggio così ingombrante da diventare oggetto del mio interesse anche a distanza. Confrontandomi subito con chi al concerto c’era sono venute fuori delle riflessioni divisive. Ormai è cosa nota: oltre che un pioniere indiscusso dell’ambient a livello mondiale, Williams Basinski è una mina vagante, una sorta di “rockstar dell’elettronica” o se preferite un anti-eroe esuberante e imprevedibile. Il concerto al Bunker non fa eccezione e il nostro amatissimo Mickey Rourke cyber-punk si presenta sul palco piuttosto ubriaco. A quanto pare Basinski avrebbe bisticciato sin da subito con la sua consolle, rilevando dei problemi tecnici onestamente non pervenuti. Qualche rimbrotto, pur goliardico, nei confronti del pubblico, del meteo e in generale della situazione (pare che si immaginasse un concerto da seduti ma non sappiamo con quanta cognizione di causa). Per chiudere in bellezza: beccatevi un quarto d’ora di Disintegration Loop col pilota automatico. Insomma, un concerto ad alto tasso alcolico che ha comprensibilmente diviso gli animi: la performance a suo modo unica e comunque mai standardizzata di un genio sregolato oppure la pantomima poco professionale di un veterano che campa di rendita? Entrambe le cose? Ho sempre subito il fascino di questo personaggio del cow-boy queer maledetto… come avrei reagito, sapendo peraltro delle sue pretese piuttosto “upper class” in fatto di accomodation?

Nel dubbio skippiamo direttamente al secondo giorno di festival, accolti finalmente dal sole sul palco all’aperto e abbracciati dalla sagoma iconica di Dave Okumu, un omone avvolto in una tunica afrofuturista che ricorda un po’ Kamasi Washington. Accompagnato dai 7 Generations, l’ensemble si rivela subito una centrifuga di groove, con una capacità prodigiosa di spaziare tra generi diversi, dal jazz al reggae fino allo psych-rock in una sorta di lunga jam session. Una proposta meno estrema e straniante rispetto al resto del menù ma comunque lontana da cliché boomer: sembra, in un certo senso, la quota Torino Jazz Festival all’interno di Jazz is Dead e ci consente di ricordare quanto la collaborazione tra i due festival cittadini abbia dato frutti interessanti quest’anno (regalandoci forse IL concerto della stagione: quello di John Zorn all’Auditorium del Lingotto).

La stessa alchimia contagiosa e incontenibile di una jam tra amici è ciò che si percepisce al minuto 1 dell’esibizione degli I Hate My Village: il supergruppo coi componenti bla bla bla queste cose ormai le sapete che richiama al Bunker anche tutta quella fetta di pubblico legata all’indie-rock nostrano di qualità. E qui di qualità in campo ce n’è veramente tanta. Se il primo disco degli IHMV poteva essere inquadrato come un “gran bel side-project” e un divertissement-omaggio colto (un po’ come il primo disco dei Calibro 35), col secondo lavoro questi ragazzacci dimostrano di avere parecchie frecce al proprio arco e di fare sul serio divertendosi. Ecco, questi mostri di bravura si divertono a stare insieme sul palco e lo fanno sembrare pure facile. Ho addirittura visto Alberto Ferrari accennare un sorriso tra un rimbrotto in bergamasco e l’altro!
Per prima cosa ci sono le canzoni: una mina dietro l’altra, a modo loro delle vere e proprie hit. Poi c’è un suono anzi c’è il loro suono carico di sfumature e contrasti: personale, ricco, riconoscibile. Insomma, insieme ai C’mon Tigre, a mio avviso abbiamo tra le mani due dei progetti che meglio declinano le sonorità mediterranee in ottica davvero internazionale. I Love My Glocal Scene.

Del resto, con questi CV sul tavolo potevamo aspettarcelo, ok, mentre non era facile prevedere il secondo tsunami del festival – e stavolta non c’entra il mal tempo. Aunty Rayzor era una delle scommesse alla vigilia e si è rivelata una delle sorprese a posteriori. La rapper nigeriana ha conquistato praticamente tutti, un po’ come era avvenuto lo scorso anno coi turchi Lalalar. L’ho avvistata nel mio radar quando il suo nome è comparso mesi fa anche nel programma del Beaches Brew Festival: se due indizi fanno una prova io ero pronto a puntare tutto su di lei. Caricata a pallettoni dalle basi dinamitarde di DJ Haram, Queen Aunty è riuscita a creare immediatamente sintonia col pubblico, limitata soltanto (e purtroppo) dalle transenne. Una pantera incontenibile che ha prontamente aggirato la sua gabbia, portando avanti quasi tutto il concerto dalla fossa dei fotografi, a ridosso delle prime file. Cori infuocati (IF YOU DONT LIKE ME U CAN SUCK MY DICK, così, suggerimento blando), indumenti sventolati al cielo, girl power e annesso twerking militante, freni inibitori non pervenuti e tanto sudore. Questa sì, una tempesta perfetta, frutto della cazzimma di una performer già incredibilmente matura, che mi ha ricordato la prima indomabile Azealia Banks ma anche una recente esibizione urban molto selvaggia di Zebra Katz a Pinerolo per Musica in Prossimità.

Aggiungo che è sempre un buon segno vedere buona parte dello staff di un festival – c’è bisogno di ricordare che si tratta di una impresa titanica? – riuscire a ritagliarsi un momento di pura gioia, condivisione ed estasi sottopalco nel pieno del delirio lavorativo: a ballare sotto cassa con Rayzor c’erano molte delle tante donne di JID. In totale visibilio. Un’immagine che spero valga un anno di fatica per loro e dà speranza anche a me da addetto ai lavori.

Non vorrei diventare troppo sentimentale proprio arrivati alla giornata più heavy e gargantuesca del festival ma ha un sapore particolare anche l’esibizione trionfale dell’Orchestra Pietra Tonale, poiché arriva a ridosso della chiusura dell’avventura – altrettanto trionfale – di Casa Tonale. La residenza in via Baltea del collettivo di matrice impro-jazz-noise capitanato da Simone Farò è stata in questi anni una fucina di sperimentazioni musicali di ogni tipo e un porto sicuro per gli ascoltatori più aperti ed esperti, curiosi ed eclettici. La chiusura di un ciclo ricco di soddisfazioni passa nuovamente per Jazz is Dead: l’Orchestra è chiamata anche quest’anno ad imbrigliare il caos e regalarci una sinfonia per 12 elementi e sguazza come sempre con disinvoltura nel pantano psichedelico.

Lo stesso magma incandescente nel quale ci tuffiamo con la leggenda Rob Mazurek insieme a Gabriele Mitelli, un’altra collaborazione col TJF e un altro trip avantgarde: due trombe massicciamente effettate che intrecciano trame matte su un tappeto di free jazz da dancefloor. Una musica che vive di contrasti per una esperienza breve ma folgorante: ostica nel suo essere giocosa, liberatoria quanto cervellotica. Come Charlemagne Palestine due anni fa sullo stesso palco, Manzurek è un veterano che non delude: si conferma un personaggio spiazzante e deliziosamente naïf.

E se la vecchia guardia tiene botta, i giovani rispondono subito senza paura: i Nu Jazz da New York – prima volta in assoluto in Europa – sono un’altra scommessa vinta del festival. Hanno un nome francamente improbabile e sulla carta sembra vogliano mescolare fin troppi generi. Loro se ne sbattono e tutto sommato funzionano, dimostrando di non essere una semplice accozzaglia di reference post-jazz ma di portare avanti un melting pot musicale con personalità e swag. La formula per ora prevede delle lunghe sfuriate strumentali: una centrifuga crossover di jazzcore psichedelico ed elettronica dall’eco nu-metal, da cui affiora la voce quasi screamo di una cantante luciferina con l’attitude di una Tank Girl che proporre letture di poesie ad un rave. Immaginate dei Black Midi da Conservatorio Occupato: difficilmente metteranno d’accordo tutti, anzi, forse anche per questo voglio dare loro fiducia.

Mette invece d’accordo proprio tutti Massimo Pupillo: alla prima nota del suo basso ammutolisce ogni singola persona in Barriera di Milano. In questo caso le chiacchiere stanno a zero: gli Zu sono una garanzia ed un’eccellenza mondiale e lo dimostrano sempre e comunque, anche in questa occasione, accompagnati dal batterista dei giapponesi Ruins che aggiunge un tocco freak all’esibizione schiacciasassi del duo Pupillo-Luca T. Mai. Quest’ultimo si defila per una buona porzione di concerto in verità ma quando entra col suo sassofono-cannone non fa prigionieri. Quando Yoshida ha annunciato Muro Torto con un urletto rauco credo di aver perso ogni dignità.  I volumi sono nettamente i più assordanti e catartici di tutto il festival e la scaletta jazzcore oriented è da lacrimuccia per i seguaci di lungo corso degli Imperatori di Ostia. Veni vidi vici: no cazzate solo mazzate. Prendete appunti dai migliori.

Lo confesso, a causa del mio evidente coinvolgimento emotivo con la performance degli Zu, ho vissuto il successivo  e attesissimo concerto di Daniela Pes in uno stato tra l’estatico e il catatonico o per lo meno come un momento di decompressione tra due pesi massimi, dopo il K.O. del jazzcore e prima della prevedibile mattanza dei Godflesh. Questo mi ha permesso di osservare, per così dire, dall’esterno, l’incredibile magnetismo che la musica di Daniela Pes riesce ad esercitare su un numero di persone sempre e sorprendentemente più ampio. La sciamana sarda scoperta e lanciata dall’etichetta di IOSONOUNCANE ha alimentato un piccolo-grande culto che l’ha portata ad orchestrare in breve tempo uno show maestoso per allestimento e proporzioni: un teatro di luci e voci non troppo lontano dal misticismo hyper-pop di una Marina Herlop o delle elegie soul-step di James Blake.

Il rituale di Daniela Pes è la magia pop di questo Jazz is Dead e l’immagine del parterre del Bunker pieno fino alle postazioni dei bar è la cartolina che non pensavamo di poter spedire quest’estate. 

In questo senso il cambio di registro deve essere sembrato, come dire, piuttosto brutale per i fan della Pes rimasti ad assistere, magari a scatola chiusa, al concerto di chiusura affidato a quei terroristi dei Godflesh. Così come, in vero, la proposta di Daniela Pes deve essere sembrata la quiete prima della tempesta ai metallari in coda per il duo di Birmingham. Ma va così: a Jazz is Dead non ci si annoia e si punta ad uscire dalla propria zona di comfort.

Come per la Messa Nera dei Boris nell’edizione 2023, Jazz is Dead si ritaglia una conclusione a effetto, epica e perfetta.

Il concerto dei Godflesh tarda un po’ ad iniziare e nel pubblico inizia a serpeggiare qualche malumore. Poi, in una atmosfera quasi surreale, Broadrick e Green salgono sul palco ieratici e sin dal primo riff cannibalizzano l’attenzione di tutti. Che dire? Valeva decisamente la pena aspettare un soundcheck più lungo e macchinoso del previsto al cospetto di un suono unico, così dannatamente personale e perverso, agghiacciante e monumentale. I fabbri britannici martellano ancora come se non ci fosse un domani, dietro a visual apocalittici e di fronte ad una bolgia inferocita. Ogni canzone sembra conficcarsi in testa come la punta del trapano nel film Pi Greco di Aronofsky: è il Teorema del Delirio dei Godflesh.

Un ultimo atto da antologia di Jazz is Dead: annichilente, definitivo, lapidario. Fino al prossimo anno.