Un progetto liquido e mutevole, un elogio alla ricerca musicale. Sonorità che partono dal Funk e arrivano all’Hip Hop mischiando il Blues ad un Soul colorato di Sicilia. Musica che si respira, musica che accompagna in atmosfere lascive e introduce a dimensioni difficili da tratteggiare, come se in un Jazz Club scuro e fumoso la scena venisse presa da ragazzi con dreadlocks e Vans, perfettamente a loro agio con l’ambiente intorno, creando pattern musicali fatti di molteplici strumenti e contaminazioni digitali. Futura 1993 ha intervistato per noi Funk Shui Project e Davide Shorty, alla riscoperta del reboot de “La Soluzione”.
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_di Alessandro Tarasco
Ne “La Soluzione”, album embrione del 2019 da cui si sviluppa il nuovo lavoro, i Funk Shui Project raccontano una quotidianità deformata nei valori, la cui scure è rappresentata dall’esclusione del prossimo e da approcci sempre più meccanici e meno umani all’interno della società odierna. Ci sono inoltre amori eterei e visioni introspettive, il tutto raccontato da testi sapienti che grazie al flow venato di jamaican roots di Davide Shorty si fondono perfettamente alle vibrazioni fumose e danzerecce del collettivo torinese. In questo nuovo lavoro chiamato “La Soluzione Reboot”, uscito il 19 giugno su tutte le principali piattaforme streaming per Totally Imported e distribuito da Artist First, Shorty e i Funk Shui Project (il bassista-fondatore Alex “Jeremy”, il beatmaker Natty Dub, il chitarrista Daniele Fiaschi e Joe Allotta alla batteria) imbastiscono un perfetto riavvio, un reboot per l’appunto, in un periodo in cui il concetto di ripartenza è brezza fresca sulla pelle di un’attualità ancora scottata dalle difficoltà del lockdown: rivisitazione di alcuni brani, collaborazioni intriganti come quella con Roy Paci, testi che provano a spiegare l’assurdità dei momenti vissuti in solitudine e in isolamento. Mai come ora abbiamo bisogno di una ripartenza, e il gruppo torinese trova ancora una volta nella voce del palermitano la forza necessaria per esprimersi in maniera chiara, decisa e mai banale. Un approccio musicale delicato e che carezza con mani nostrane un sound d’oltreoceano, una piccola chicca di rime e versi di matrice peaceful che danno ancora di più una dimensione intima al lavoro, suggerendo un approccio all’ascolto rilassato, occhi chiusi e testa ciondolante sul beat. Risultato? Affondando le orecchie in un terreno coltivato con suoni classici e pervasi da diverse influenze, il complesso siculo-sabaudo riemerge con un groove eclettico, di pregevole livello melodico e rinfrescato da un rap graffiato e graffiante. Abbiamo fatto alcune domande ai ragazzi divisi tra Torino e Londra, dove ora abita Davide.
Voglio partire con una citazione di un vostro concittadino, Alessandro Baricco, estratta da un’intervista fatta con Marco Montemagno e relativa alla creatività in quarantena “Chi si immagina che grazie a questa quarantena noi creativi, artisti o come volete chiamarci, siamo lì e in questa singolare pace costrittiva stiamo producendo chissà cosa, bè, direi che vi sbagliate di grosso […] abbiamo della nebbia in testa, un ronzio nelle orecchie costante, che è quello che non capiamo e che probabilmente ci manca. Una sorta di opposizione, perché per chiuderti in casa devi avere qualcuno fuori che ti insegue”. Voi invece avete tirato fuori un lavoro di assoluto livello: siete stati stimolati dalla surrealità del momento oppure è nato tutto in precedenza?
FSP: Diciamo che l’idea di sperimentare qualcosa di diverso, in ottica più orchestrale, era già nella nostra testa da un po’ di tempo. Perdere gli stimoli durante il lockdown poteva essere molto facile ma abbiamo preferito metterci al lavoro. Questo ci ha consentito di sentirci vicini e di portare avanti comunque il nostro percorso.
Impossibile per me non collegarmi al vostro bellissimo progetto di qualche anno fa “In The Loft”: se provo ad immaginare la nascita del vostro nuovo album, della ricerca e dell’innovazione che avete voluto portare ad alcuni vostri vecchi pezzi, vi vedo esattamente muovervi all’interno di quello splendido laboratorio creativo che era, o è, quel loft.
FSP: Purtroppo quel loft non è più a nostra disposizione, ma è rimasto importante come battesimo della collaborazione con Davide Shorty e rimane il nostro modus operandi nella ricerca di rinnovamento per il nostro sound e per la connessione con altri musicisti. Non escludiamo che un giorno possa tornare un loft a disposizione dove ripetere l’esperienza.
Ascoltando la vostra musica mi sono reso conto che, se dovessi descrivere musicalmente Torino, non potrei non fare riferimento anche a voi: la città della Mole è ibridazione, visceralità, classicismo e graffiti. Penso alle contaminazioni dei Subsonica, penso anche alla vostra ecletticità: che rapporto avete con la città e le sue vibes?
FSP: Siamo cresciti con gli Africa Unite in una Torino ancora underground, respirando anni di fermento e ribellione che ci hanno formato forse più mentalmente che musicalmente. Per quanto riguarda il nostro progetto fin da subito ci siamo confrontati con realtà più nazionali e anche distanti geograficamente, ma sicuramente vicine per gusto e attitudine. Ci sentiamo diciamo, più che di Torino, del Torino (ridono, ndr).
Rimanendo sul tema dell’influenza che certi contesti possono favorire, mi rivolgo a Davide Shorty: quando ho intervistato La Rappresentate di Lista e ho chiesto loro in quale città si identificassero, mi hanno risposto “ci piace raccontarci come una band con base a Palermo: una città del sud, lontana da tutto, con i suoi ritmi e i suoi tempi”: quanta Sicilia c’è nel tuo approccio musicale?
Shorty: Tantissima! Soprattutto Palermo: le sue strade, i suoi profumi e il suo meraviglioso miscuglio culturale. Il mio accento é prepotentemente palermitano e la mia città la porto dappertutto, anche tatuata sul braccio.
Adesso però abiti a Londra, melting pot per eccellenza: quanto ti ha fatto crescere musicalmente la città inglese?
S: Vengo da un posto dove il melting pot esiste da sempre, quindi a Londra ci sguazzo, proprio perché le possibilità sono sempre dietro l’angolo. Il livello é alto e ti spinge sempre a migliorarti. La città é grande e c’é il bisogno di creare una specie di famiglia per poterla vivere al meglio. Ho trovato legami davvero fraterni. Andare alle jam, suonare nei pub e mettermi in discussione mi ha fatto capire quanto sia importante tenere la mente aperta e mai mettersi a confronto, assorbendo tutto quello che si può e ci può rendere migliori.
Il vostro lavoro è un ceviche di generi, influenze e stili: ci puoi trovare del soul, dell’hip-hop e del blues, il tutto accarezzato da contaminazioni digitali. In un contesto così mutevole, come nascono le vostre canzoni?
FSP: Sicuramente gli ascolti che condividiamo sono il fil rouge del nostro lavoro. Non sempre sono ascolti recenti o attuali, anzi, sempre più spesso guardiamo al passato per creare qualcosa di nuovo, di diverso, che magari nessuno ha ancora proposto.
Il progetto, per quanto ibrido, ha un’anima profondamente italiana: sprazzi di soul perfettamente in grado di fondersi con il rap nostrano e con delle basi che cavalcano influenze talvolta funk e talvolta blues. Perché certi suoni faticano ancora ad emergere e ad essere perfettamente riconoscibili nel panorama musicale italiano?
FSP: Probabilmente siamo vittime del fatto che per essere diffusi a livello nazional-popolare in Italia le canzoni debbano essere “orecchiabili”, termine che più di ogni altro descrive un prodotto artistico destinato ad essere consumato dalla massa in breve tempo ma senza perdurare e senza lasciare un messaggio. Di conseguenza la ricerca di qualcosa di profondo trova poco spazio in questo mercato ma crediamo profondamente che le fondamenta solide di un progetto possano resistere al passaggio delle mode e dei personaggi del momento.
Domanda doppia: chiedo ai Funk Shui Project se in Davide Shorty hanno trovato, viste le vecchie collaborazioni, un Willie Peyote un pò più roots e a Davide Shorty se si è ispirato a Willie Peyote per la collaborazione con i Funk Shui Project.
FSP: La collaborazione con Davide è nata in maniera molto spontanea esattamente come fu per il lavoro con Willie. Entrambi sono dei maestri nello scrivere e nell’interpretare se pur con diversi stili. Abbiamo sempre cercato nei nostri frontmen flow e groove, ma mai un richiamo a qualcosa di precedente e siamo orgogliosi di tutte le collaborazioni fatte finora, anche al di fuori degli album.
S: Sinceramente no. Ammiro moltissimo Willie sia nel rap che nella scrittura, ma nella collaborazione con i FSP ho semplicemente seguito la nostra naturale chimica.
Le melodie abbracciano dolcemente dei testi ricercati e mai banali: visto che scrivete a più mani, come nutrite la vostra creatività in merito?
FSP: Nel nostro caso vivendo a stretto contatto anche al di fuori del lavoro, condividere ascolti ed esperienze ci da sempre molti input.
Sarà un’estate priva di concerti e festival: vi sareste dovuti esibire al Mi Ami questa estate, giusto per dirne uno. Come vivete questo momento distante dal pubblico?
FSP: Ne stiamo approfittando per lavorare sul nostro sound e sui futuri progetti, anche se non vediamo l’ora di tornare sul palco.
Bonus Track: Dopo Roma e Milano, penso che le città di Torino e Bologna siano i due contrafforti musicali più floridi nel contesto italiano, sia per qualità di proposta che per ambiente. Quanto è corretta, o quanto è sbagliata, questa affermazione?
FSP: Per la nostra esperienza, Milano rappresenta il terreno fertile per il music business in tutte le sue sfaccettature. Bologna è più underground, offre stimoli creativi non indifferenti sia per fermento che per la storia che si respira. Torino è un pò morta forse negli ultimi tempi ma rimane una grande fucina di talenti e Roma ci ha sempre accolto a braccia aperte e con grande calore.
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