La strada di casa: l’ultimo libro di Kent Haruf è puro disincanto

Ormai siamo coinvolti nella vita di queste persone, nella natura cupa e malinconica di Holt: qui Kent Haruf ha trovato il palcoscenico perfetto. 

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_di Francesca Fazioli

 

Di certo non c’è nessuna scritta “Welcome to paradise” ad aspettarti all’ingresso di Holt, la piccola cittadina immaginaria del Colorado nella quale Kent Haruf ha ambientato ogni suo romanzo. La strada di casa è la storia di qualcuno che a casa non sarebbe dovuto tornare, è la storia di come la giustizia a volte fallisce, è puro disincanto. Jack Burdette, uno dei protagonisti di questo libro, passa da esempio supremo di ciò che è possibile in assoluto a simbolo lampante e spiacevole di ciò che in realtà è, ma quando il velo si squarcia è troppo tardi. Inutile scommettere contro le probabilità, credere in un futuro che si sente già perduto, attendere l’amore con la consapevolezza che ti verrà strappato via, lavorare nel rispetto dei principi che l’ambiente circostante ti ha insegnato se ottenerlo è impossibile.

Haruf trascina l’intera città nello squallore, anche i più eroici annegano, la generosità viene ricambiata con la rabbia, la genialità sembra solo un approdo per gente negligente, l’umorismo è sempre aspro e la fede di fronte alla disperazione è solo motivo di espiazione. È Pat Arbuckle il narratore, giornalista dell’Holt Mercury, il filtro che Haruf ha deciso di utilizzare per questo racconto che procede come un puzzle, la sua vita si aggancia a quella di Jack e Jessie, la moglie di Burdette, schiva, retta e pragmatica, il personaggio a cui Haruf in tutti questi anni ci ha abituato. Jessie suo malgrado diventa lo specchio in cui ogni cittadino di Holt vede riflesso lo sbaglio compiuto, l’incapacità di analisi, l’inganno a cui si è sottomesso, seppur innocente resta l’unico bersaglio su cui esprimere la rabbia e quel senso di vendetta che gli abitanti scambiano per giustizia. 

La trama è fin troppo semplice da immaginare, una città che si crogiola nella sua leggenda locale, un giovane affascinante e vincente, una ragazza carina e innamorata che svolge i compiti al posto suo e il bucato quando ormai a scuola non vanno più, la cooperativa agricola che è diventata una casa quanto il campo di football. Tutti nell’attesa che questo ragazzo diventi un uomo e prenda il posto che Holt ha designato per lui, ma qualcosa va storto, la giovane al suo fianco fin da bambina viene gettata via mentre immaginava un matrimonio in bianco per un’altra donna, mentre gli agricoltori si ritrovano beffati dalla loro cieca fedeltà. Ecco che tutta Holt inizia a aprire gli occhi ancora un po’ basita, il loro prezioso ordinario è stato compromesso, ma invece di chiedersi come selezioniamo i nostri eroi e quanto siamo disposti a concedergli quando ci abbandonano, preferiscono aggrapparsi all’idea che una resa dei conti sia ancora possibile. 

Kent Haruf, morto nel 2014 a settantun anni, ha scritto questo libro sei anni dopo Vincoli, il primo romanzo, e nove anni dopo Il Canto della Pianura che l’ha consacrato come autore. 

Ho letto da qualche parte che quando scriveva aveva una buffa abitudine, si metteva di fronte alla macchina da scrivere, toglieva gli occhiali e copriva i suoi occhi con una calza, batteva sui tasti spingendosi oltre la fine della pagina, nessuna distrazione e completa abnegazione, ecco, è quello che succede quando si inizia un suo libro, diventa impossibile sfuggire alla sua melodia semplice e disadorna, diventa inaccettabile sottrarsi a Holt, ai suoi abitanti, alla loro cocciutaggine, ai loro conflitti, tutto è così splendidamente vivido da poter essere toccato, un altro luogo da inserire nella mappa letteraria che via via ci siamo costruiti, accanto alla Contea di Yoknapatawpha che Faulkner aveva immaginato per noi.