È l’estate del 1970 e la scrittrice di Sacramento decide di eseguire un viaggio “on the road” alla scoperta del Sud con il marito John: il risultato è una serie di annotazioni dal potere descrittivo vivido e avvolgente, ora riunite nel volume edito recentemente da Il Saggiatore.
_
_di Roberta Scalise
«[…] E così, invece di parlarne, un giorno presi un volo diretto a sud, nell’estate del 1970, noleggiai una macchina e girai per un mese in Louisiana, Mississippi e Alabama, senza incontrare portavoce, senza coprire avvenimenti, senza fare nulla, se non scoprire, come di consueto, di che cosa era composta quell’immagine nella mia mente».
Un’immagine, quella del Sud, che la scrittrice californiana Joan Didion conservava nei suoi ricordi fin dal 1942-1943, quando il padre era di stanza a Durham, North Carolina, nel corso della Seconda Guerra Mondiale e la giovane autrice ebbe, così, modo di delinearne, in occasione delle sue visite, «un’impressione vaga e indefinita», emblema della confusione di un Sud considerato, nel suo passato, alla stregua del «futuro, la fonte segreta di un’energia benigna e insieme maligna, il centro psichico».
Mossa dal desiderio di redigere un articolo a proposito del Golfo del Messico e delle sue peculiarità, dunque, Didion decise di partire per New Orleans insieme al marito John Gregory Dunne – scrittore e sceneggiatore protagonista dell’accorato “L’anno del pensiero magico” –, avviando, nel giugno del 1970, un viaggio “on the road” lungo un mese, privo di mete predefinite e volto alla scoperta dei poli pulsanti del dolceamaro Sud.
E il cui risultato è la sequela di appunti vividi, puntuali e originali riuniti in “A Sud e a Ovest. Pagine da un diario”, pubblicati per la prima volta nel 2017 ed editi in Italia, recentemente, dai tipi de Il Saggiatore, con la traduzione di Sara Sullam. Fil rouge della raccolta, il desiderio di conoscenza, comprensione ed esplorazione delle atmosfere del Golfo, ognuna delle quali risulta contraddistinta da una “luce” singolare e da una molteplicità di dettagli esclusivi, e talvolta impercettibili, che la scrittrice – tra le maggiori esponenti del New Journalism – è in grado di riportare attraverso uno sguardo sul reale dotato di equilibrio e aderenza.
Dando abbrivio al proprio itinerario da New Orleans, la cui «aria è greve di sesso e morte», la cui atmosfera «risplende in oggetti casuali con una luminescenza morbosa» e la cui temporalità «è lirica, ingenua e caratterizzata dal fatalismo tipico di una cultura dominata dalla wilderness», infatti, il viaggio di Didion ripiega, tra detriti di uragani, ricordi personali e gabbie di serpenti, su Pass Christian e Gulfport, e approda dapprima a Biloxi, Mississippi, distinta da una popolazione atrofizzata in un «isolamento dai flussi della vita americana impressionante e scioccante» e unita nelle differenze da una «costante disapprovazione del mondo esterno», e, in seguito, a Meridian, ossia «il centro urbano più grande tra Jackson e Birmingham». Per poi giungere, successivamente, nei territori dell’Alabama, di cui l’autrice calamita le suggestioni in un coacervo di sinestesie, istantanee fugaci e incisive ed eccentricità, toccando le città di Tuscaloosa, Birmingham, Winfield, Guin, Grenada, Oxford, Clarksdale e Greenville.
Un intrico di destinazioni che forgia, così, una mappatura geografica ed emozionale composita e accattivante, dalla quale emergono, in particolar modo, i dialoghi, le aspirazioni e le riflessioni delle persone che ne abitano i luoghi: il racconto delle città visitate da Joan Didion, infatti, scorre attraverso la delineazione dei volti, degli atteggiamenti e delle abitudini dei loro residenti, personaggi – silenziosi, incontrati o anche solo ammirati di sfuggita – di una narrazione che assume quasi i contorni di una pièce teatrale dal carattere personale e intimistico. E i cui tratti, somatici e caratteriali, divengono, quindi, gli emblemi delle anime urbane, riportate sulla pagina con una maestria e una delicatezza eleganti e impavide che conducono il lettore nelle vivide atmosfere ritratte.
Le medesime per mezzo delle quali, inoltre, l’autrice denota anche i contorni di un Sud governato da arretratezza culturale, conservatorismo, segregazione razziale, sessismo e retaggi di pensiero arcaici: aspetti da cui Didion sente l’urgenza di affrancarsi il prima possibile e per opporsi ai quali offre espressione alla speranza di alcune delle voci ascoltate – per sbaglio o per cognizione – nei meandri delle sue città, tra scorci di vita quotidiana, parentesi di miseria e assordanti ripetitività.
Il tutto reso attraverso uno stile pervasivo, misurato e lucido, denso di concretezza e di sfumature viscerali e intriso di esistenze vissute che si susseguono lungo il perimetro, spesso caotico, di una narrazione affidata a una capacità descrittiva di rara intensità, in grado di immergere gli occhi voraci che li inseguono nel caldo torrido di Clarksdale o al bordo di una piscina di Birmingham, o, come nella parte conclusiva del testo – che raccoglie gli appunti trascritti, nel 1974, in occasione del processo di Patty Hearst, a San Francisco –, tra i ricordi di un’infanzia perduta e le riflessioni sulla terra natia.
Una vera e propria “fabbrica”, come afferma Nathaniel Rich nell’introduzione al volume, che ci consente non solo di osservare da vicino il raffinato metodo di scrittura di Joan Didion, ma anche di dischiudere lo scrigno prezioso di articoli che non furono mai redatti ma che appaiono in grado, ora, di offrirci una visione profondamente critica e sapiente di un Paese e dei suoi destini, passati e futuri.