[INTERVISTA] La stand up comedy di Michela Giraud, ricca di irriverenza e “altri animali”

Abbiamo intervistato l’attrice e stand up comedian romana, volto dei palchi italiani più prestigiosi del settore e di successi televisivi e web, quali, tra gli altri, “La tv delle ragazze”, su Rai 3, “CCN”, su Comedy Central, i video virali de “Educazione Cinica” e la serie Fox “Romolo+July”.

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_di Roberta Scalise

«È stato lo spettacolo più bello che, finora, abbia fatto a Torino». È con entusiasmo e un po’ di commozione che Michela Giraud ha salutato un pubblico sabaudo in estasi, riunitosi martedì scorso per assistere al suo generoso e scoppiettante spettacolo, “Michela Giraud e altri animali”, prodotto dal progetto Torino Comedy Lounge – vero e proprio pioniere della stand up comedy torinese – e ospitato presso il Cubo Teatro di Off Topic.

Classe 1987 e volto di successi come “La tv delle ragazze”, su Rai 3, “CCN”, su Comedy Central, e le serie “Educazione Cinica” e “Romeo+July”, l’attrice e stand up comedian romana – ma di origine partenopea e dal caratteristico cognome francese – ha, infatti, regalato uno show ironico e autentico, arricchito da oltre due ore di commistione tra alto e basso, irriverenza e invito alla riflessione, e da un sapiente connubio di presenza scenica e carisma.
Per poi convergere il tutto verso la medesima foce: l’affrancamento dagli abiti sociali imposti e la piena accettazione di sé, delle proprie debolezze e delle proprie, originali, sfumature.

Ne abbiamo parlato con la stand up comedian stessa, che ci ha svelato gli esordi, le interpretazioni e le intimità di una passione pulsante.

Partiamo dallo spettacolo: sul palco sei stata totalizzante e carismatica, e hai riversato la tua irriverenza in numerosi ambiti argomentativi – dalla politica ai fidanzati, fino ai disagi familiari, personali e sociali. Secondo te, però, la stand up comedy possiede dei confini che non possono essere valicati? E tu, te ne poni?

Io penso che il limite lo possieda ogni comico per quanto riguarda la propria vita: ciascun stand up comedian, infatti, parla di ciò che ritiene credibile per quanto concerne la sua esperienza. Ogni comico si spinge fin dove lo conduce il suo vissuto.
In generale, perciò, credo si possa scherzare su tutto, ma è necessario avere la maestria adeguata per poterlo fare: più si mettono le mani nelle questioni spinose, più ci si deve elevare a livello intellettuale. Per questo, io prediligo non farlo, perché non ho esperienza di certe tematiche – quali, appunto, tumori, razzismo o simili. Se elaborassi delle battute al riguardo, risulterei una mentecatta e non sarei a mio agio con me stessa: per portare in basso qualcosa che, a tale livello, vi è già, serve un carpiato di intelligenza incredibile. In caso contrario, è meglio non farlo.

Quindi, dal tuo punto di vista, è sempre necessaria una certa aderenza alla verosimiglianza.

Esatto: ci devono essere rimandi alla verità, altrimenti mi sentirei inadeguata.

Ma come ti sei avvicinata alla recitazione e, nello specifico, alla stand up comedy?

La storia è molto complessa. Ho iniziato a recitare per merito del mio fidanzato dell’università, il quale mi chiedeva sempre “Ma perché non reciti?”. Io, però, non me la sentivo: oltre alla laurea a cui pensare, infatti, rimbombava nella mia testa quell’imperativo borghese del “talento innato”, in base al quale se una certa disciplina non la si pratica fin da bambini, allora risulta impossibile riuscire a eseguirla bene in seguito. Accostarsi alla carriera artistica era, dunque, sinonimo di “sbando”.
Per questo motivo, non avevo mai considerato tale mestiere, ma dopo aver elaborato, a Bilbao, un “inconsapevole” monologo di stand up e aver ricevuto gli incoraggiamenti di questo ragazzo, mi sono avvicinata al teatro e, nonostante le iniziali ritrosie, me ne sono innamorata definitivamente.

E non solo. La tua creatività si presta, infatti, a molti campi, come televisione, cinema, serie e video sul web: qual è il “vestito artistico” che ti senti maggiormente addosso? E come la stand up comedy influenza gli altri ambiti?

Non te lo saprei dire. Ho scoperto di essere una brava attrice di serie senza che ne fossi consapevole: quando sono scoppiati i video di “Educazione Cinica” – format ideato da Comcobut, ossia Edoardo Scognamiglio ed Enrico Nocera – o quello del “Colloquio di lavoro” per “Il posto è giusto” – che ho scritto io –, infatti, ho visto i tratti e il volto di una persona che non conoscevo. Tale mestiere è la cosa più bella che c’è: è la vita. Ma, naturalmente, non puoi vivere solo di questo: con certe battute non mangi, nonostante tale disciplina sia ciò che più si avvicina alla realtà.

La stand up, dunque, sì, influenza molto gli altri ambiti, positivamente e negativamente: tante porte me le ha aperte, ma altrettante me ne ha chiuse. Ciò che mi dispiace, però, è che certe persone, vedendo solo estratti di terzi, vengano a conoscenza delle parti più grevi di quest’arte, mentre, al contrario, lo spettacolo è un connubio di momenti che – come accennato – rispecchiano la vita stessa. Sembra che la gente non voglia divenire consapevole di quest’ultima, e conserva moltissimi pregiudizi: una reticenza che, spesso, ha segnato la mia strada.
Sto cercando, quindi, di non farmi condizionare troppo dalla stand up: non perché me ne vergogni, ma perché desidero dimostrare di essere in grado di fare anche altre cose.

Quale significato ha, per te, la stand up comedy?

A livello personale, per me ha un ruolo fondamentale, perché mi ha salvato la vita: trovo, infatti, straordinario che oggi ci siano ragazzi che, attraverso essa, abbiano la possibilità di poter esprimere se stessi e dire le cose come stanno, anche in televisione. In questo senso, ringrazio moltissimo Comedy Central, che mi ha permesso di esibirmi e di restare autentica.
In definitiva, il fatto di raccontare storie e di trovarne sempre il lato ironico e positivo credo esprima la sintesi della vita e della resistenza, ossia: la vita è una merda, ma noi, in un modo o nell’altro, ne usciamo fuori, e sul palco faccio vedere come reagisco.

Ricollegandoci al titolo della serie web che ti vede co-protagonista, “Educazione Cinica”: quanto cinismo è necessario, dal tuo punto di vista, per svolgere questo lavoro?

Il cinismo credo sia essenziale, ma nel caso di “Educazione Cinica”, i suoi video esprimono un po’ quell’estremo bidimensionale mediante cui ci si rapporta con il mondo. Io sono romana, e il romano, come popolo, è da sempre molto crudele, perché storicamente abituato a essere disilluso e a cercare di sopravvivere di fronte ai molteplici giochi politici. Noi romani, perciò, siamo particolarmente disincantati circa gli affetti e i legami, ma questa è, al contempo, anche la nostra arma per vivere.

Pertanto, sì, nella vita ci vuole cinismo, ma non apprezzo chi lo esalta alla stregua di un manto, come fosse completamente slegato da un sostrato sentimentale che, però, è necessario: nel complesso, infatti, sarebbe opportuno mantenere un’adeguata calibrazione tra i vari aspetti, che non riduca il tutto a uno stereotipo arido.

In un mondo che, invece, arido sembra esserlo molto, come gestisci le critiche?

Sono molto sensibile, quindi subitaneamente le critiche mi destabilizzano. La chiave per affrontare le stesse, tuttavia, me l’ha fornita un mio amico: se a rispondere mi diverto, bene, altrimenti è meglio evitare. All’inizio leggerle mi arrecava dispiacere, ma, piano piano, ho imparato che non si possa piacere a tutti e che dare importanza a questi fastidi sia solo una perdita di tempo.

«Tra le cose che ho imparato dai miei colleghi vi è proprio la tranquillità nel gestire il palco: i problemi d’ansia di cui parlo nel corso dei miei spettacoli, infatti, sono reali, e affrontare il pubblico, all’inizio, non è stato semplice»

Per quanto concerne, invece, i tuoi monologhi: quali sono le fasi principali della loro gestazione e quando comprendi che possano essere pronti ad approdare sul palco?

Secondo me, un monologo funziona quando la gente percepisce la mia esigenza: è un gioco di scrittura e di autenticità, supportato da una forte urgenza personale di riferire ciò che mi irrita. Così, ne deriva un discorso condito di battute, che limo e provo in maniera suicida fino a quando non lo reputo pronto.

Nel comparto delle stand up comedian donne, tu sei, senza dubbio, una delle comiche maggiormente di spicco. Immagino che, però, vi siano ancora molti i pregiudizi circa la comicità femminile: che cosa ne pensi, al riguardo? E quali sono le tue esperienze?

Dal mio punto di vista, il problema non sussiste. Io, personalmente, non lo sento, e la volontà di non considerare tali illazioni è così radicata in me che neanche ci faccio caso. Credo, infatti, che la questione viva nel momento in cui ce la si ponga. Non ho mai trovato, quindi, persone che mi dicessero: “Non fai ridere perché sei donna”. Ma, naturalmente, nel corso della mia esperienza, ci sono stati abusi, molestie, prepotenze.

Dirò una bestialità: io non credo nel maschilismo, bensì nella stupidità. Tutte le volte in cui sono stata messa all’angolo, infatti, gli artefici non erano solo uomini che mi temevano – e mi temono ancora –, ma anche donne che volevano distruggermi, mosse da una profonda perfidia. Quindi si può anche parlare di maschilismo, ma se la cosa che mi ha fatto un collega è stata effettuata anche da una donna, allora questi sono due stronzi, non sono maschilisti! Si tratta di cattiveria, giudizio e prevaricazione.
Perciò sì, i pregiudizi sussistono, ma io non me ne curo.

A proposito della stand up comedy italiana, invece, come la valuti? E qual è il suo stato di salute?

Credo che il suo stato sia ottimo: ci sono live in tutte le città e il pubblico li apprezza. Certo, siamo in Italia, quindi è ancora un po’ mal vista, ma sono fiduciosa che la situazione cambierà.
Rispetto agli americani e agli inglesi, infatti, abbiamo la difficoltà di dover essere più versatili, e di non poter permetterci di fare determinate cose. È difficile, per esempio, che, nella televisione italiana, la stand up comedy senza censure trovi spazio. Ma non impossibile.

Quali sono i tuoi punti di riferimento del genere?

Tra quelli italiani, senza dubbio i miei due maestri, ossia Saverio Raimondo e, a livello teatrale, Stefano Vigilante. Poi, apprezzo moltissimo Francesco De Carlo, Edoardo Ferrario e, in generale, tutti i protagonisti di “Satiriasi”, che è stata la mia fonte d’ispirazione. Ho una grande stima dei miei colleghi, che sono un’infinità – dai neofiti a quelli con cui ho condiviso un percorso –, e vederli in azione è sempre una scoperta, perché occasione continua di insegnamento.

E il palco, invece? Come lo affronti?

Tra le cose che ho imparato dai miei colleghi vi è proprio la tranquillità nel gestire il palco: i problemi d’ansia di cui parlo nel corso dei miei spettacoli, infatti, sono reali, e affrontare il pubblico, all’inizio, non è stato semplice. Ero molto impostata e, per esibirmi al meglio, ho dovuto necessariamente ricostruirmi da capo. Agli esordi, poi, il rapporto con il palco era molto complicato, soprattutto perché stare al centro dell’attenzione non era, per me, previsto, a livello lavorativo, e una parte del mio essere ha sempre conservato timidezza e vergogna.
Può sembrare un paradosso, ma io, talvolta, ho proprio bisogno di momenti di solitudine, riflessione e assenza, anche tra le persone: in questi casi, “entro nei muri” e mi estranio, ed è bellissimo. Direi che la relazione con il palco sia, dunque, il risultato di un lavoro tormentato, ma dell’amore del pubblico ho bisogno, e non potrei farne a meno.

A questo proposito, infine, in quale modo fronteggi i momenti in cui gli astanti non reagiscono come vorresti, nel corso della serata?

Li vivi, muori, ma poi te ne freghi. E vai avanti.