Arte contemporanea nel Canavese: una domenica di primavera al Castello di Rivara

L’incredibile museo di arte contemporanea in provincia di Torino che non puoi assolutamente non conoscere.

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_di Giorgio Bena

A poco meno di un’ora da Torino, dal 1985 il castello di Rivara ospita un museo di arte contemporanea fondato dal gallerista torinese Franz Paludetto come spazio di sperimentazione artistica e curatoriale e centro di documentazione sull’arte contemporanea.

Basta dare un’occhiata alla lunghissima lista dei critici e curatori (tra i quali Hans-UIrich Obrist, Jean-Cristophe Ammann, Mirella Bandini, Renato Barilli, Luca Beatrice, Angela Vettese) e degli artisti (come ad esempio Felix Gonzalez-Torres, Gordon Matta-Clark, Maurizio Cattelan, Gianni Piacentino e Hermann Nitsch) che negli anni hanno collaborato con questa istituzione per rendersi conto della sua importanza e della sua rilevanza anche sul profilo internazionale.

Per la stagione espositiva estiva, inaugurata domenica 14 aprile, oltre ai tre piani dell’esposizione permanente il castello ospiterà tre personali ed un’interessante installazione.

È proprio l’installazione Teddy Bear di Simone Benedetto ad accogliere i visitatori nell’atrio: gigantesco idolo – o totem – dell’innocenza violata, raffigura un orso giocattolo la cui pelle è completamente ricoperta di pistole intagliate in un morbido polimero che inganna l’occhio e la mente senza neanche cercare di farlo. Non è tanto l’arma, quanto l’idea della stessa ad essere al centro di questo lavoro, dove infanzia e violenza si sposano in un connubio formale instabile: Teddy Bear è conturbante, giocosa ed estremamente brutale al tempo stesso, e ci aiuta a riflettere  su quanto oggi la violenza sia un elemento di costante presenza nella nostra vita e su come essa non risparmi nemmeno i più giovani e indifesi membri della società, sia essa la violenza dell’iperesposizione mediatica o la violenza reale che non si prende vacanze e non chiede i documenti.

I lavori di Elvio Chiricozzi sono raccolti in Ci si arrende sempre qualcosa di semplice, anche se si avrebbe la tentazione di parlare al singolare di lavoro, perché pur nella peculiarità di ogni singola opera si percepisce un potentissimo senso di unità, complice l’insistenza su un soggetto – il cielo – trattato con un metodico iperrealismo che trova nella grafite il proprio medium.

Il rapporto tra Chiricozzi, il Castello di Rivara ed il cielo era iniziato nel 2013 con l’allestimento dell’installazione site-specific permanente “La stanza del Cielo”, nel quale la volta celeste si trasforma in una trama pavimentale oscura che crea una potente dissonanza con lo slancio verticale ed il raffinato candore dell’ambiente barocco che la ospita, dando al visitatore la sensazione di essere sospeso tra una forza ascensionale e l’ineluttabilità della caduta, moderno Adamo/Eva alle soglie del proprio “Paradiso perduto”. Nelle opere in mostra Chiricozzi torna a guardare il cielo, interpretandolo con un naturalismo formale che nasconde sapientemente una fortissima tensione emotiva, che si coglie solo nell’andamento dei tratti di grafite da cercare in controluce: così se una tela squarciata da un fulmine sembra vibrare di fremiti elettrici, nell’opera affianco quiete nuvole disegnano e sono disegnate da un’andamento fluido che parla di serafica contemplazione. È un cielo che non è paesaggio-luogo, ma paesaggio dell’anima, espressionismo che nulla cede all’astrazione ma invade l’iperfigurazione.

In Campioni di Nikus Lucà (che espone lavori dall’omonima serie), la figurazione grafica (concretizzata nell’atto del selezionare e riproporre immagini, ovvero campionarle) si sposa ad una forte componente plastica. Lucà sceglie e riproduce immagini dalla storia dell’arte, dalla musica e dalla cultura popolare utilizzando degli spilli che – da dietro – perforano tele monocrome andando a costituire i tratti, le ombre, i profili. Queste opere sublimano nella dissonanza del rapporto tra soluzioni cromatiche delicate o deliberatamente vitali e la fredda violenza delle punte di spillo una perversa bellezza che non può non derivare anche dalla percezione immediata della maestria dell’artista, del quale si impone al nostro sguardo la perizia quasi artigianale.

Antologica di Delfina Camurati racconta e riesamina quarant’anni di lavoro dell’artista biellese.

Ciò che emerge dall’intera mostra è la capacità della Camurati di mantenere un’identità chiara senza rinunciare a portare costantemente un elemento di innovazione nel proprio operare, come si può chiaramente misurare confrontando le opere nettamente concettuali degli esordi con l’astrattismo organico degli ultimi lavori, sempre all’insegna di una ricerca di risultati visivi che non siano significanti in sé, quanto appelli all’osservatore perché esso entri in contatto con sé stesso.

Interessante è l’intento della mimesi materica che caratterizza molte delle sue opere, dove il legno imita la pietra, la quale in alcuni casi sembra a sua volta voler imitare qualcosa. È una riflessione che al tempo stesso mette al centro della significazione la materia e pone in essere un’esplorazione delle possibilità della pittura: il “Dio dell’Acqua” (anni ’90) sembra celebrare un felice matrimonio tra un Gilberto Zorio e un Claudio Verna, o – nelle riflessioni che ho avuto modo di scambiare con il curatore critico Fabio Vito La Certosa – un “divorzio che porta ad altri matrimoni”.

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