Massimo Popolizio ed Emanuele Trevi portano sul palcoscenico dello Stabile torinese l’intramontabile romanzo pasoliniano.
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_di Silvia Ferrannini
_di Silvia Ferrannini
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Sulla soglia ostile e necessaria dell’età adulta, la giovinezza dei ragazzi di Pasolini si arresta e si agita.
Nelle borgate romane del secondo dopoguerra di Ragazzi di Vita (per la regia di Massimo Popolizio e con sceneggiatura di Emanuele Trevi) scorrono vibrazioni essenziali di sopravvivenza, tra oggetti e ambienti poveri ma eloquenti, dando il via alle piccole coreografie di piccoli uomini. La “disperata vitalità” di Riccetto, Agnolo, Caciotta, Begalone e gli altri trapassa la scenografia nata dalla creatività di Marco Rossi, dove le figure dei ragazzi nella spregiudicatezza, nella diversità dei loro corpi e nella forza gestuale e verbale – ingredienti base dei loro pasticciacci di vita.
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Ad aggirarsi tra questi scorci di quotidianità borgatara è il narratore/personaggio Lino Guanciale, una sorta di delegato di Pasolini che guarda e commenta al fianco degli spettatori le vicende di questi giovani corsari.
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Proprio l’autore del romanzo li aveva osservati nei suoi soggiorni a Roma, ne aveva studiato e stilizzato il corposo e immaginifico linguaggio (da qui il romanesco colorito ma mai sguaiato dello spettacolo), aveva incanalato e tramutato in materiale poetico la loro totale mancanza di felicità. Da qui partono Popolizio e Trevi, che scelgono dunque di attenersi fedelmente al testo pasoliniano. Da qui parte il loro racconto in forma teatrale sul desiderio fanciullesco di essere eroi in un sistema che non permette di esserlo e sul modo in cui esso s’introietta – per la disperazione, per mancanza d’altro – nella prepotenza verso il prossimo, sì da poter provare a legittimare il proprio essere al mondo.
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Riccetto rischierà l’annegamento per salvare una rondine in balia della corrente del fiume ma non muoverà un dito per soccorrere il povero Genisio: significativamente sono questi i due quadri tratti dal libro rappresentati rispettivamente all’inizio e alla fine della messinscena, tracciando così una gittata che sprofonda nel grigiore del lavoro adulto e nella definitiva perdita dell’innocenza.
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Un’innocenza snaturata dalle durezze della vita, sovente celata nelle maglie della soggezione e dell’egoismo, ma che conserva la generosità di un’infanzia che ha fame di mondo.
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Le vite pasoliniane si muovono tra Centocelle e Piazza di Spagna, passano dal Tiburtino e si concedono dei fuoriporta ai Lidi di Ostia. Trevi e Popolizio hanno selezionato delle scene che condensassero con poche chiazze di colore quella Roma che così faticosamente provava a rimettersi in piedi. Emerge da qui tutto quel che serve: la tragicità, l’impeto, il livore, la fatica ad essere altro, l’inaccettabile necessità della crescita. Sono questi gli elementi che rendono grande l’opera di Pasolini, e questo è ciò che Popolizio e Trevi ripropongono in una luce che mai invecchia e mai cesserà di narrare la grande impresa di muoversi nel mondo senza smarrirsi, tra una canzone di Claudio Villa e l’altra, tra le piccole ruberie sui tram e i litigi familiari – ieri come oggi, con la voce di Pasolini o di chiunque altro riesca a stendere questi frementi affreschi di vita.