[INTERVISTA] Riccardo Sinigallia: suonare a testa in giù

Riccardo Sinigallia torna sui palchi italiani per presentare la nuova fatica discografica “Ciao Cuore”, uscita a settembre 2018 per Sugar, la storia etichetta discografica di Caterina Caselli. In vista della prima data del tour, il 17 gennaio a Hiroshima Mon Amour, abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il musicista e produttore romano.


_di Alessia Giazzi

Sono passati ormai quattro mesi dall’uscita di “Ciao Cuore”, arrivato a quattro anni dal tuo ultimo album. Tempo fa hai dichiarato che questo disco è stato come un nuovo esordio per te. Che cos’è cambiato rispetto al Riccardo Sinigallia dei dischi precedenti?

In realtà non credo di aver mai utilizzato questa parola: i primi tre album per me sono sempre stati una specie di trilogia che avevo in testa da quando ho cominciato con il primo, “Riccardo Sinigallia”. Ho sempre pensato che avrei voluto fare tre dischi, di sicuro, poi chissà. Sono tre dischi legati perché contano il primo, un disco in cui io sono abbastanza disinteressato verso l’ascoltatore – l’ho fatto principalmente per me, infatti si chiama “Riccardo Sinigallia” – il secondo è un avvicinamento a un ascoltatore immaginato e il terzo invece si chiama “Per tutti” ed è quello dell’apertura. Chiusa questa specie di trilogia egocentrica, questo è il primo disco che forse faccio con una specie di motivazione a priori, con un nuovo approccio diciamo, più libero. Forse questo ha fatto sì che qualcuno lo ritenesse un nuovo esordio, ma si tratta più di una nuova attitudine con cui ho fatto tutto l’album.

Quindi da che tipo di esigenza scaturisce “Ciao Cuore”?

Guarda, l’esigenza è più o meno sempre la stessa: questa strana invasione, rapimento, che ho vissuto da dodicenne quando mi sono reso conto che probabilmente questa era la mia vera passione e che mi sarebbe piaciuto passare le mie giornate tra la musica e il testo. È un’esigenza che ho come quella che si ha per le cose di cui magari non ci rendiamo neanche tanto bene conto, come le cose primarie della vita, dormire, ridere. Se io non scrivo qualcosa dopo un po’ sono insoddisfatto. Quindi sono totalmente incastrato, prigioniero di questa meravigliosa magia che è quella della canzone.

L’album esce con Sugar e riconferma la tua collaborazione con la storica etichetta di Caterina Caselli. Quanto ha influito la sua figura sul risultato finale di “Ciao Cuore”?

Ha influito tanto perché abbiamo avuto sempre un bellissimo rapporto, costante e diretto, brano per brano. Tra l’altro lei mi ha dato uno stimolo molto importante perché ad un certo punto mi ha detto: «Se tu riesci a dare la stessa attenzione che dai alla musica, alla composizione e al testo anche al canto, secondo me chiudi il cerchio e allora quello che fai diventa veramente unico.». Allora mi ci sono messo ed effettivamente, in questo disco, una delle altre differenze è proprio questa: sono un po’ più attento alle tonalità e alla parte melodica. L’ho curata maggiormente rispetto al passato, dove magari mi concentravo molto di più sui contenuti, sulle idee musicali e un po’ meno sull’aspetto vocale.

Parlando di sonorità “Ciao Cuore” è un album molto vario a livello di influenze musicali: dal blues di stampo americano alle percussioni africane e addirittura reminescenze sudamericane in pezzi come “A cuor leggero”. Durante la realizzazione di “Ciao Cuore” hai approfondito dei generi particolari o ci sono stati degli artisti che ne hanno ispirato il sound?

In realtà non ho approfondito dei generi particolari perché ascolto la musica in totale leggerezza: ascolto quello che mi cattura ma non faccio più dei viaggi di ricerca dell’ascolto, come facevo da ragazzo. Adesso sono anche più pigro ma allo stesso tempo, negli ultimi anni, l’ascolto di musica africana, e soprattutto la conoscenza con un produttore israeliano che stimo tantissimo mi hanno un po’ aperto a certe produzioni che non sono si limitano semplicemente a degli stili, si tratta di un approccio quasi spirituale con le persone con le quali fai musica. Questo aspetto trova sicuramente una maggiore storia nel Mediterraneo e ad Est rispetto all’Europa o agli Stati Uniti, forse anche in Sudamerica in maniera molto più naturale, anche più leggera e gioiosa. Per cui ogni tanto nel disco si sentono delle influenze, alcune sono inconsce o magari naturali perché questo approccio porta poi ad avere più legami con alcuni tipi di ritmi e di soluzioni.

Che rapporto hai invece con la musica elettronica? Ti ho sentito citare spesso la tua ammirazione per  i Kraftwerk e questo tipo di sonorità riveste sicuramente un ruolo importante all’interno del nuovo disco, affiancandone l’anima più cantautorale.

È un universo musicale che mi ha sempre affascinato e che probabilmente fa parte del mio DNA. I Kraftwerk ne sono sicuramente la parte più nobile e acclamata ma nei primi anni Ottanta i sintetizzatori facevano parte di sigle televisive e di molta musica pop. C’erano gruppi super pop come i Rockets accanto alle sigle dei vari cartoni animati, così come quelle del TG2 in cui i sintetizzatori erano abbastanza protagonisti perché era una specie di scoperta, c’era qualcosa di pionieristico all’epoca. Poi tutta la dance degli anni Ottanta, Novanta ha molto attinto dai sequencer che magari poi venivano elaborati e assemblati per creare quei dischi straordinari come ad esempio quelli di Moroder con Donna Summer. Negli anni Novanta ho poi approfondito il trip hop, la techno e anche tutta la parte più “rock” dell’elettronica, vedi ad esempio i Chemical Brothers. Fa parte di me e ogni tanto mi piace mischiare le tre sorgenti – acustica, elettrica ed elettronica – è quasi una mia ossessione.

Mi vengono in mentre altri artisti del panorama musicale italiano come ad esempio Iosonouncane  che nell’ultimo periodo ha contribuito a rafforzare questo connubio tra elettronica e cantautorato, generando una vera e propria corrente a livello nazionale.

Iosonouncane sicuramente lo ha fatto anche bene. Ce ne sono tanti altri anche in maniera più leggera – ad esempio Cosmo – ma anche tutta questa scena dell’indie-pop vedo che utilizza tantissimo l’elettronica quasi come fosse una specie di scudo. Grazie a quelle sonorità hanno l’impressione di apparire più innovativi rispetto a quello che potrebbero sembrare ad un’analisi semplicemente armonica e ritmica, invece ci mettono un suono strano e un giro di DO e sembra chissà cosa.

Pensi che manchi innovazione alla scena contemporanea italiana?

Beh sì, credo proprio di sì. Non nella trap, la trap forse è l’ultima espressione – parlo semplicemente dal punto di vista musicale, non dei testi e degli artisti – dei produttori: Sick Luke, Charlie Charles e tutti gli altri, nel mondo direi, sicuramente negli ultimi cinque o sei anni hanno rappresentato comunque un cambiamento. Sarebbe stupido non ammetterlo, è anche interessante: adesso la trap è diventata un po’ un cliché quindi ci sta anche annoiarsi, però è stato l’ultimo cambiamento significativo e molto hot.

Un aspetto che mi ha molto colpito particolarmente di “Ciao Cuore” è la parte legata ai videoclip e a come i personaggi del tuo album si ritrovino sia sulla cover del disco che all’interno del video della title track, che diventa quasi un trailer. Proprio parlando di video, sei spesso stato in prima linea per quanto riguarda la creazione dei tuoi videoclip. Qual è il processo creativo che come musicista ti porta a tradurre una tua canzone in immagini?

Ma guarda, è una necessità [ride] perché mi sono reso conto abbastanza presto – negli anni Novanta quando facevo il produttore e il cantautore e giravamo i videoclip con i 6 Suoi Ex – che quando ci affidavamo a un regista in maniera totale, poi restavamo sempre insoddisfatti perché, ovviamente, non era in grado di tradurre o percepire i nostri caratteri e le nostre preferenze stilistiche e narrative. Allora mi sono reso conto che era molto più efficace gestirli per conto nostro, quindi cominciai a fare video – forse il primo fu proprio quello di Frankie Hi-nrg, “Quelli che benpensano” – e ci rendemmo conto che era molto meglio per noi. Facemmo poi una serie di video con i Tiromancino: l’attenzione più che altro era quella della scrittura perché nessuno di noi era regista, ci affidavamo a dei direttori della fotografia e a degli operatori molto bravi. Noi semplicemente sapevamo come volevamo raccontare questa storia: essendo gli autori sapevamo benissimo come dirigere il tutto per arrivare a quel racconto lì. Sono sempre stato rapito dai videoclip classici degli anni Settanta/Ottanta in cui c’erano i gruppi che si esibivano in playback ma ad un certo punto quel linguaggio lì mi ha stufato, non lo trovato più interessante: vedere un artista che stimavo che faceva finta di cantare delle cose molto impegnate, riduceva tantissimo la considerazione della sua proposta. Ho sempre pensato che il video fosse una possibilità di raccontare un’altra storia, oppure una possibilità creativa, quindi ho sempre cercato di inserirci qualcos’altro che non fossi io davanti al microfono che faccio le facce da bello, da brutto o da cattivo, peggio ancora! Quindi mi sono divertito a fare delle storie, poi molti hanno preso questa cosa come un eccesso drammaturgico (ride).

In questo caso mi sono affidato a un regista perché era molto complicato girare il video di “Ciao Cuore”: serviva davvero un regista bravo e Dandaddy è stato bravissimo perché quello è un piano sequenza unico e inoltre nello stesso giorno abbiamo girato anche  il video di “Niente mi fa come mi fai tu”. Abbiamo realizzato questa storia di una rockstar decadente romana – che Valerio [Mastandrea] ha interpretato perfettamente – e ne ho approfittato per metterci dentro tutti i personaggi che simboleggiano le canzoni del disco.

“Ciao Cuore” approda finalmente sul palco e il tuo tour parte il 17 gennaio proprio da Torino.

Sì è una coincidenza che si ripete! Le agenzie mi fanno sempre partire da Torino e credo che sia una specie di affinità karmica reciproca di cui sono molto contento perché amo Torino, soprattutto da romano la vedo molto simile a me come atmosfera culturale. La vedo più simile a come sono io, mi sembra molto ricettiva su certi toni del linguaggio sia testuale che musicale quindi sono sempre molto contento di partire da lì.

Con chi ti vedremo condividere il palco? Avete pensato a qualche soluzione particolare per  la trasposizione live del nuovo progetto?

Sì abbiamo fatto tutto un lavoro sempre in linea con il minimalismo che mi contraddistingue, questa famosa intimità malinconica, eccetera [ride] Ci sarà, per la prima volta dopo i Tiromancino, una piccola scenografia tra luci e piccole proiezioni. Con me in questo tour ci saranno le persone che dopo una durissima selezione di anni – reciproca – hanno resistito e sono i migliori che in questo momento potrei avere sul palco, al mondo proprio, per tutta una serie di motivi, non solo per bravura ma anche per romanticismo, coraggio e disponibilità. Ci sarà ovviamente Laura [Arzilli, ndr] al basso, poi c’è Ivo Parlati alla batteria, Andrea Pesce “Fish” alle tastiere e Francesco Valente alla chitarra. Abbiamo strutturato la prima parte del live un po’ più elettronica per rappresentare al meglio l’ultimo disco e qualcosa del primo, poi nella seconda parte scendo invece in quel salotto, un po’ radical chic, acustico, più soft, più intimo.

A tal proposito, ti ritrovi a portare live un album molto intimo. Nel momento in cui ti trovi a doverlo interpretare live come riesci a condividere una sfera così privata con un pubblico di perfetti sconosciuti?

Ho sempre amato gli artisti di cui intravedo l’aspetto più intimo nella scrittura così come nell’espressione e credo di conoscere i motivi per cui le persone poi vengono ai miei concerti – non sono poi mai numeri da palazzetto e forse non lo saranno mai – però sono persone che cercano come me quel tipo di legame, di affinità con le canzoni. Viene tutto molto naturale.

Parlando di live mi fa sorridere “Niente mi fa come mi fai tu” in cui parli usi l’espressione “suonare a testa in giù”, a sottolineare un atteggiamento sfuggente sul palco.

È una caratteristica ricorrente, mi hanno sempre detto “Ma tu non puoi stare sempre a occhi chiusi, sempre a guardare per terra” [ride] e io purtroppo invece trovo imbarazzante l’atteggiamento opposto, cioè quello del petto in fuori, vestito a festa a guardare dritto in camera. Non so, è un esercizio che ho trovato sempre molto scadente rispetto invece agli artisti che vivono pienamente quel momento come se fosse un momento rappresentativo ma della vita per quello che è, quindi ad ampio spettro emotivo. Ci sono dei momenti in cui puoi guardare negli occhi una persona e dei momenti in cui invece li accogli. Non ho dischi, né vado ai concerti degli “animali da palco”, di solito sono sempre stato amante dei songwriter, dei grandi cantautori che avevano un approccio quantomeno molto emotivo anche con la faccenda di lottare sul palco.

Tra gli ultimi concerti che hai visto ce n’è uno in particolare che ti ha colpito in tal senso?

Quello dei Low a Milano mi è piaciuto tantissimo, molto più del disco tra l’altro! Il concerto è stato veramente straordinario.