Colette, lo scandalo di essere se stessi

Provocatorio, anticonformista, conturbante: Colette di Westmoreland è un inno imperdibile d’indipendenza, dove Keira Knightley brilla come una Venere dell’Art Nouveau. 

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_di Sara Carda

Dopo la presentazione al Torino Film Festival, Westmoreland porta nei cinema “Colette”, basato su una parte della vita di Gabrielle-Sidonie Colette, scrittrice francese che divenne baluardo di emancipazione femminile negli anni ’10, ma descrivere il film unicamente come un biopic sarebbe quasi una riduzione ad absurdum.

Ciò che Westmoreland racconta è un viaggio verso la presa di coscienza di sé di una giovane donna, vittima di un marito-padre (Henri Gauthier-Villars interpretato da Dominic West) che sfruttava il suo talento pubblicando le sue opere con il proprio nome e di una società che voleva rinchiuderla in un ruolo ben definito: la moglie accondiscendente, che perdona le scappatelle del marito perché “gli uomini sono deboli”, senza pretese né sogni.

Colette è triste e non sa perché. Scrive febbrilmente e non è soddisfatta, gira per i salotti più à la mode di Parigi e si sente soffocare.

Il matrimonio non è come se lo immaginava, la vita non è come se la immaginava. Finché non capisce perché. Quella che sta portando avanti non è una vita, ma una recita con un copione scritto da secoli di convenzioni che le dicono chi deve essere e cosa deve provare. Capirlo è come il risveglio da un incubo, e con la determinazione di chi non può più cedere a compromessi, prende in mano la propria esistenza e fa quello che pochi osano davvero: vive per se stessa e al diavolo la società.

Per lei vuol dire divorziare dal marito e intentargli causa per ottenere i diritto delle proprie opere, dichiarare la propria bisessualità e andare in tournée come attrice con spettacoli della stessa audacia della sua Claudine, l’eroina di carta che l’aveva resa famosa, graffiante e sagace, libera e indipendente, simbolo di una generazione di donne-angelo del focolare, che cercavano le ali per volare via.

Certo, per dichiarare la propria indipendenza non occorre andare nei teatri e uscire come conturbanti Cleopatra mezze nude dai sarcofagi, ma le rivoluzioni, si sa, hanno bisogno di gesti estremi per essere compiute, ne sanno qualcosa le sessantottine che bruciarono in piazza i loro reggiseni. E se le donne ora possono scrivere senza pseudonimo, avere voce in arte come in politica, lo si deve a queste antesignane del #metoo che si ribellarono a uno società claustrofobica dove il potere era solo maschile.

Una lezione di libertà e di ricerca di sé che non si esaurisce solo in un’ottica femminista.

Dichiarata bisessuale, Colette parla dell’amore saffico nei suoi libri, lo porta a teatro con baci che fanno scandalo, e lo vive in prima persona con diverse donne, coraggiose quanto lei di lanciare un messaggio, quello di essere se stessi.

E di sfondo a tutto questo, l’arte. Un’arte a tutto tondo, che è più viva della vita stessa perché espressione di puro sentimento, anima istintiva, e, nei primi del ‘900, svincolata dalle convenzioni. Colette nel film parla dei suoi libri come figli, parti in cui ha rinchiuso pezzi di sé, motivo per cui non può più scrivere sotto coercizione del marito. E il teatro è un secondo amore, che le consente di usare tutto il suo corpo per dar voce ai suoi pensieri. Ma anche fuori dal palcoscenico, Colette vive la sua vita come un’opera d’arte, come D’Annunzio suggeriva e come lo spirito della Belle Epoque di Parigi permetteva. Spirito reso immortale dalle tele degli Impressionisti, che catturarono la vivacità e la stravaganza di quegli anni, e a cui la pellicola rende omaggio non solo con i colori della fotografia ma con inquadrature che trasformano quelle opere in quadri viventi, come “I piallatori di parquet” di Caillebotte o “Una domenica pomeriggio” di Seurat.

“Siate felici. È un modo di essere saggi” ci dice Gabrielle e questo è il grande messaggio del film. Siamo qui per essere felici, non convenzionali, e se per farlo dobbiamo scontrarci con la società, così sia. Sarà lei ad adattarsi a noi.