Con Notte di Edgar Hilsenrath, la casa editrice Voland ci fa (ri)scoprire uno dei romanzi più crudelmente belli della letteratura dell’Olocausto.
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_di Silvia Ferrannini
Secondo dopoguerra: contro la scelta di non narrare, Hilsenrath sceglie la violenza.
Il divieto morale del silenzio sull’Olocausto in nome dell’ineffabilità dell’orrore -la sua intraducibilità in verbo umano- viene scalcinato e riedificato in Prokov, l’equivalente immaginario di Mogilëv-Podol’skij, la cittadina in Transnistria dove l’autore ebreo tedesco e la sua famiglia furono deportati nel ’41. In quel piccolo inferno di macerie e di fame ne morirono quarantamila su cinquantamila. Si può non raccontarlo?
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L’abbraccio dell’esperienza (la sola che può affidare la parola) alla fine stritola le disperate anime del ghetto di Nacht (Notte), che patiscono il gelo, lo sporco, la scurrilità di chi tanto l’umanità non ha più idea di dove sia: s’è allontanata talmente tanto, in cerca della sua fonte, che non sa tornare più indietro. I soli passi che il lettore può seguire per sfogliare le pagine sono quelli di Ranek (nelle cui vicende non bisogna vedervi alcuna autobiografia, e Hilsenrath ha a cuore di sottolinearlo), unico sguardo narrativo fisso, poiché molte vite si perdono lungo la via.
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La Transnistria di Notte è il tetro olio su tela di un bruegeliano giardino delle delizie al rovescio, annegato in un nero senza stelle.
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Tutti nel romanzo sono vittime della bruttura e ne perpetrano altrettanta; tutti aspirano solo a un pezzo di coperta o a un goccio di latte; tutti sono pronti a sopraffare o a tirarsi indietro nel pianto. La tragedia di queste creature larvali è tutta corporea -la mente non ha più niente da suggerire. Allegoria e crudezza si diluiscono e restituiscono grottesco, nel quale nessun dettaglio è tralasciato e l’insieme è immediatamente visibile, con un unico colpo d’occhio.
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La prosa di Hilsenrath non lascia spazio al dubbio nel suo slittare da una prospettiva all’altra, come a dire: «Non solo narro, ma lo faccio con tutti gli occhi che posso indossare». Ed è così che semplicemente impugna la penna e buca il foglio, perché il segno s’imprima e rompa. Qui la letteratura si fa rivolta, si fa violenza.
Tutto e tutti in Notte sono alla stessa altezza. Un cadavere non si distingue dall’altro; la fame acceca chiunque; l’unica dialettica ammessa è quella della sopravvivenza, fino all’ultimo fremito della carne. La sorte che attende Ranek è già sottintesa nell’impotenza che emerge lungo tutto il romanzo: se non ci sono le premesse per la creazione di una vita, la morte si affaccerà solo più frequentemente.
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Notte di Edgar Hilsenrath è un romanzo bellissimo e terribile. La fine non c’è: la conosciamo bene tutti.
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Le peripezie che il libro ha dovuto attraversare (verrà rifiutato più volte) sono testimonianza della sua difficoltà. Nel 1966 esce a New York nella traduzione di Michael Roloff per i tipi di Doubleday & Company; questa di Voland è la decima edizione, la prima in italiano, avvalorata dalla splendida traduzione di Roberta Gado e dall’accurata postfazione di Paola Del Zoppo. Notte e gli altri lavori dell’autore (tra i quali Orgasmo a Mosca, tradotto sempre da Voland nel 2016) sono opere che tutti dovrebbero conoscere, assaggiarne l’amarezza delle parole, l’essenzialità della sintassi, la densità dei contenuti. Nel revocare il suo sottosuolo, Hilsenrath conquista il potere della letteratura e della sua verità.