Il concerto dedicato al sentimento della Follia dà inizio alla Stagione 2018/2019 sotto il segno di Schubert.
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_di Silvia Ferrannini
_di Silvia Ferrannini
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Se di partenza si tratta, che sia un’acrobazia per sfidare la gravità.
Schubert, in cabina di pilotaggio, tenta un doppio giro della morte: o tutto precipita o diventa immortale.
Si decolla con il teatro (così in fretta che l’Ouverture non è pronta e bisogna prenderla in prestito), ma il vero spettacolo è una sinfonia ineseguibile, lunga come il divino, grande come il passato.
Folle come il nostro primo volo.
(Testo a cura di Gabriele Montanaro)
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L’Orchestra Filarmonica di Torino ha i motori ben caldi ed è pronta a librarsi in volo per la Stagione 2018/2019. Il personale di bordo vi fornisce tutto il necessario: la durata, la collocazione storica dei compositori che vi apprestate ad ascoltare, le informazioni fondamentali per godere appieno di ciò che sta per profilarvisi allo sguardo e all’udito.
Questo primo “giro della morte” verrà eseguito da Franz Schubert: il rullo iniziale è dell’Ouverture D732 da Alfonso ed Estrella; il decollo è il Balletmusik II in sol maggiore D797 n.9 da Rosamunde; il picco decisivo è l’imponente Sinfonia n.9 in do maggiore D944, La Grande, proprio quella che secondo Schubert poteva ben competere con le ultime opere di Beethoven.
L’Ouverture nasce sotto il segno dell’amicizia e, purtroppo, della difficoltà: nel 1821 il librettista Franz von Schober compose la musica insieme a Schubert in soli sei mesi, guidato insieme all’amico dal desiderio di far rifiorire l’opera tedesca nazionale (Il Franco Cacciatore di Weber era stato rappresentato a Berlino giusto pochi mesi prima) laddove imperversava l’opera italiana. Per rendere lo spartito accattivante, i due scelgono di mettere da parte lo Singspiele e di favorire la fiaba, la grandiosa coralità, il ricco apparato strumentale; ma nel dicembre di quello stesso anno a Vienna il nuovo direttore Domenico Barbaja preferì Rossini, e poco valsero gli sforzi di Weber a far rappresentare l’opera a Dresda. Il lavoro finì tra le carte di Schubert e si dovrà aspettare l’intelligente volontà di Liszt per vederla al Teatro di Corte di Weimar nel 1854.
E tuttavia il sottotitolo opera romantica tuttavia non deve trarre in inganno: per struttura, vocalità e argomento la memoria va all’opera semiseria italiana – e questo è il mondo interiore di Schubert: svagato, un poco disperso, certo sempre cangiante nella ricerca del compiacimento melodico.
In bilico fra l’esempio di Beethoveen (che mai, in ultima istanza, gli fu completamente congeniale) e l’intimo ascolto dell’estensione dei sentimenti, l’asso nella manica di Schubert era la variazione sul tema, la ricerca del motivo prediletto e la sua riproposizione con una differente modulazione. Preferiva il cenno alla vasta architettura: per questo ebbe difficoltà ad individuare una propria cifra sinfonica, e in tal senso si spiega come nel suo repertorio abbondi il frammento, l’incompiuto, il lavoro portato avanti per tentativi. Ma la sfida sta esattamente nell’afferrare la fluidità vagabonda dell’intuizione a dispetto, anche solo per un attimo, del preciso scopo strutturale. Giampaolo Pretto, dal 2016 direttore musicale dell’Orchestra Filarmonica di Torino, sa di dover sfruttare il colorito strumentale per variare la ripetizione tematica, e dal podio tira fuori tutta l’energia, la vitalità, se si vuole anche l’imperfezione di questa pagina schubertiana. I musicisti la sentono tutta, e la restituiscono ad un pubblico sempre più felicemente coinvolto.
La Sinfonia n. 9 in do maggiore D944 è grande ambizione, grande scrittura, e soprattutto un altro grande recupero operato da chi preme affinché la musica, temeraria e complessa che sia, si prenda lo spazio e i tempi necessari. Schumann trovò la Sinfonia nel dimenticatoio di Schubert, dov’era stata abbandonata a causa dell’incomprensione dei contemporanei; Mendelssohn prenderà fogli e bacchetta e dirigerà il tutto a Lipsia, nel 1839 – e così il grande tributo nei confronti di una creatura musicale che parte dal Beethoveen eroico e apre ai pù intensi Brahms e Bruckner, è compiuto.
I corni espongono il tema iniziale, che viene continuamente riproposto e messo in discussione fino a scivolare nell’Allegro ma non troppo. Il movimento circolare di bassi, legni e tromboni che ne segue si riaggancia all’Andante di apertura: la trasformazione si fa, in nome di quella bizzarria che solo la musica è in grado di realizzare, riesposizione, lasciando incalzare l’intuizione nuova nel tema appena proposto. Il Più moto che segue è conferma del pieno possesso del mezzo espressivo che ormai il maturo Schubert aveva definito.
La melodia “all’ongarese” è introdotta da un oboe che annuncia l’avvio all’Andante con moto. A un primo grande blocco tematico segue un nuovo episodio aperto da una intensa polifonia degli archi e chiuso dai richiami misteriosi dei corni; la riesposizione del primo blocco conduce a uno sviluppo drammatico, con uno splendido passaggio di violoncelli e oboe, e a un ritorno del secondo episodio; e il movimento si chiude richiamandosi al motivo iniziale, con un delicato gioco di proporzioni che dona aurea compiutezza alle multiformi peregrinazioni del movimento. Segue uno Scherzo brillante e serrato, cui si contrappone un Trio dal carattere di Ländler popolare.
L’intera Sinfonia gravita però verso il Finale: l’incessante propulsione ritmica stimolata dal dialogo tra gli ottoni e gli archi si acquieta per un attimo con la cantilena dei legni, per poi tornare a palpitare con il recupero di elementi già rappresentati e ora ridisposti paratatticamente, ed esplodere nell’acme conclusiva. Ormai lo stratagemma di Schubert è chiaro, e per questo non ha paura di affrontare il giro della morte, lasciandoci a terra a guardare col fiato sospeso e un’unica consapevolezza: se la Sinfonia era nata come omaggio al classicismo, sguardo al presente e slancio verso il futuro, oggi è soprattutto testimonianza della folle meraviglia della musica.