Un concerto di livello internazionale quello di Julien Baker all’Arci Ohibò di Milano. La cantautrice statunitense ha dimostrato, sotto gli occhi di un pubblico attento e davvero molto numeroso, ha dato vita ad uno show coinvolgente, di altissima classe e che non ci scorderemo facilmente. Anche per le lacrime con le quali abbiamo accompagnato ogni sua canzone.
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_di Mattia Nesto
Si fa fatica a respirare, l’aria è umida e il clima è molto più simile al cuore di tenebra di una foresta tropicale che ad un club milanese a settembre. Eppure qualcosa si muove laggiù, tra i drappi che nascondono il camerino, a mo’ di un muro di foglie, parafrasando una parete di mangrovie. Ed ecco che, sorvegliata da un nugolo di occhi famelici di ogni suo movimento, sorriso o smorfia di approvazione, appare lei, Julien Baker, uno dei nomi più fulgidi e riconosciuti nel panorama internazionale (anzi americana ma alla fine vuol dire la stessa cosa) dello slow-core, quel particolare stile di music che fa struggere il cuore sin dalle prime note.
Ma com’è Julian Baker dal vivo? È esattamente come la si vede nei filmati di Pitchfork o nei live che su Youtube si susseguono: è schiva e riservata, eppure istrionica e espansiva, quasi si nasconde sul palco eppure riempie la scena come pochi.
Il concerto dell’altra sera al Circolo Ohibò di Milano, organizzato da Radar Concerti, è stato proprio questo: una sorta di ricerca antropologica condotta nella giungla metropolitana per comprendere come, ancora una volta di più, un artista di stampo anglo-sassone si presenti a noi, ragazze e ragazzi del ventre molle d’Europa, come di un’altra categoria, come “troppo brava per essere”, come perfetta seppur semplice e immediata. Esatto, lo avete capito da soli, come una sorsata di acqua fresca e cristallina quando si è invischiati fino al collo nella mota e nel fango amazzonico.
Baker si è prodigata con uno show completo e conchiuso, parlando poco al microfono e lasciando che la musica, quello per cui alla fine tutti quanti (a proposito quanto si era ieri sera, non sarebbe potuta entrare più neppure una capocchia di spillo visto l’hype tutt’intorno) ci si eravamo spinti a Milano Sud esprimesse per lei tutta lo spettro possibile delle emozioni.
Emozioni umane che sono state via via snocciolate appunto dai suoi pezzi che, nonostante una base comune e una omogenea attitudine, sono tutte quante diverse le une dalle altre. E questa insindacabile alterità non è data da qualità squillanti, da cambi di ritmo improvvisi o da strappi che renderebbero la tela tessuta da Julien Baker piena di buchi. No, tutto il contrario. Qui, come se ci trovassimo di fronte ad una fine artista della Borgogna del ‘500, l’arazzo di Baker è perfetto, con la trama e l’ordito al loro posto e i colori che si sposano perfettamente, dimostrando come, cambiando poche virgole al proprio spartito, si possa esprimere un intero mondo e farci viaggiare pur rimanendo fermi. Che tanto dove si va quando il tuo gomito finisce esattamente dove inizia il costato del ragazzo che ti sta di fianco e dove chi porta gli occhiali si trova con l’espressione da otaku giapponese, con le lenti appannate e l’espressione molesta anche senza avere cattive intenzioni.
Quando poi le luci si sono accese, dopo un crescendo netto dello show (anche se l’inizio, e per intonazione della voce e per rapporto con l’arco, unico strumento presente sul palco oltre alla chitarra di Baker, è stato fin da subito perfetto) gli spettatori hanno prima preso una boccata d’aria nel giardinetto circostante, bevendo una birra fresca nella serata calda di Porta Romana osservando i misteriosi fichi verdi che pendono dagli alberi del Circolo Ohibò. E tutti, ma proprio tutti, si sono ritrovati a chiedersi oppure a chiacchierare su “quanto Julien Baker fosse stata assolutamente brava”, senza se e senza ma. Un concerto quindi di valore assoluto, percepito nell’immediato del suo compiersi come tale e per questo tanto prezioso e unico perché, come è giusto che sia, fruito in un piccolo club, a pochi metri (forse meno) dall’artista in questione.
Artista che anche ieri sera a Milano ha sfondato più volte svariati Mach dei nostri cuori, dimostrando, proprio come cantava Battiato, che non servono “fumi e raggi laser” per fare un concerto. Perdonatemi la banalità: per fare un concerto servono le canzoni e per fare una cantante serve l’arte. Nessuno di questi elementi, ieri sera a Milano al concerto di Julien Baker al Circolo Ohibò, sono mancati, anzi ve n’erano in abbondanza.