[REPORT] Ypsigrock 2018: tra nani e giganti chi la spunterà?

Nel pieno di agosto, a Castelbuono, tra le rinfrescanti Madonie, si è svolta la 22esima edizione di Ypsigrock, con Horrors, Jesus & Mary Chain e molti altri. Qualche spunto di riflessione su uno dei festival più attesi dell’estate, che quest’anno ci ha regalato diverse sorprese…


_di Raffaele Auteri

Da cosa si giudica la riuscita di un festival musicale? Dal blasone degli artisti in cartellone? Dalla loro effettiva performance? Dal gradimento del pubblico per ciò che vedono o provano in quei pochi giorni? Forse da tutte queste cose messe assieme.

Quello che l’Ypsigrock continua a dare all’isola e all’Italia tutta è indiscutibile e merita rispetto e ammirazione per chi, da così tanti anni, fatica con forza e amore per portare musica internazionale di qualità in una terra “difficile”.

Ma proprio per  questo motivo, ai primi annunci della line up, si era forse storto un po’ il naso. Tralasciando Jesus and Mary Chain headliner, ci si presentava davanti una sfilza di artisti emergenti e poco conosciuti, oltre ad altri due headliner che in altri festival europei avremmo magari trovato tra le seconde linee. L’impressione iniziale era di non essere riusciti a bissare, almeno sulla carta, la splendida edizione dello scorso anno.
Come a volte accade, però, tocca ricredersi.

A detta di molti, l’edizione del 2018 è stata una delle più divertenti e riuscite in assoluto.

Il primo concerto di quest’anno di Ypsigrock è quello  delle canadesi Random Recipe, che oramai in Sicilia conosciamo bene. Il duo canadese, come sempre, fa spettacolo sul palco, coinvolgendo sin dai primi minuti tutto il Chiostro. La voglia di far festa è tangibile e comincia a crearsi, con loro come poi per molti altri artisti, questo strabiliante scambio di energia che rende musicisti sul palco e pubblico un’unica grande entità semovente a ritmo. Ritmo che, purtroppo, perde la sua intensità per i Girls Names. La band post punk era attesissima ma, complice forse qualche problema tecnico, risultano una mezza delusione: piatti e a tratti noiosi. Un vero peccato, considerando quanto di buono ci avevano fatto ascoltare su disco.

Stessa sorte capita, purtroppo, ai Blue Hawaii. Veniamo a sapere dai musicisti stessi che è stata smarrita parte della loro strumentazione e che hanno dovuto riarrangiare sul momento l’intero set. La dolcezza e la voglia di fare, però, vincono su qualsiasi intoppo, permettendo ai canadesi di farsi amare dal loro pubblico per la spontaneità del loro oramai intimo e semplice concerto, meravigliati profondamente di ricevere comunque così tante ovazioni. La bellezza di Ypsigrock è anche questa.
La vera magia avviene però sotto al Castello. Aprono le danze (letteralmente) gli Her. Il progetto francese ha visto, da poco, perdere uno dei suoi membri, Simon Carpentier per un tumore l’anno scorso, ma la loro musica prosegue grazie al lavoro di Victor Solf, che riesce ad ammaliare col suo innegabile charme e le sue meravigliose movenze sul palco. Gli Her, nonostante un repertorio abbastanza scarno, incantano e seducono, dimostrando, soprattutto, di essere degli ottimi musicisti e dei grandi intrattenitori.
Subito dopo, uno dei live più attesi del festival, almeno per chi conosceva già i Confidence Man. Il duo australiano è uno dei gruppi più chiacchierati del momento e sono già noti per le loro incredibili performance live. Il concerto risulta essere, alla fine dei giochi, il momento di massimo splendore del festival. Si è ballato fino allo stremo un repertorio disco che svolazzava qua e là su delle chitarre funky, mentre la coppia più stravagante del panorama musicale attuale metteva in scena una serie infinita di mosse estemporanee di danza, tanto imbarazzanti, quanto splendide. È un ossimoro travolgente quello dei Confidence Man, che fanno del motto “balla come se nessuno ti guardasse” la loro ragione di vita. L’area sottopalco si è tramutata in una gigantesca dancefloor improvvisata. Sono stati ironici, dissacranti, accattivanti e sfacciati; delle perfette macchine da concerto. Un concerto da fare almeno una volta nella vita, se non di più.


Si riprende fiato mentre sale sul palco Aurora, giovanissima cantante norvegese. Sembra quasi impacciata e timida quando parla, ma appena inizia a cantare è subito magia. Un talento vocale di rara fattezza cristallina. Rimaniamo incantati dalla sua voce e dal suo modo di muoversi sul palco, totalmente immersa nella musica, facendo da ponte, con la sua energia, tra il pubblico e il palco. Sembra quasi indemoniata mentre canta una canzone più bella dell’altra. Un pop nordico sicuramente molto canonico, ma davvero di altissimo livello.

Unica nota stonata della serata sono proprio gli headliner. Gli Horrors hanno infatti dato subito l’impressione di essere poco coinvolti e poco inclini a creare una sintonia con il pubblico. Alla spacconaggine di Faris Rotter non fa seguito la band, che risulta molto sottotono sia in dinamica che nei suoni. Per completare il tutto, la band decide di chiudere anzi tempo l’esibizione, facendo un favore al pubblico e a loro stessi.

Il secondo giorno del festival è forse quello col più alto concentrato di realtà accattivanti, sebbene non inizi nel migliore dei modi. Al Chiostro di San Francesco si esibiscono Her Skin e Ama Lou.
La cantante italiana propone un set acustico che non convince musicalmente, ricordando più un momento di svago tra amici in spiaggia che un vero e proprio concerto, sebbene la simpatia e la timidezza spontanea della giovane artista addolcisce comunque l’esibizione.
Ama Lou, invece, nonostante abbia una splendida voce, cade nell’oramai tipico stereotipo del soul contemporaneo. Sul palco salgono in quattro, ma ad esibirsi è sostanzialmente solo la cantante inglese, che sembra dar vita a una tipica puntata di X-Factor. Gli altri tre componenti hanno avuto un ruolo più marginale, nei cori e  gestendo la base hip-hop/trap. Uno dei momenti più alti dell’esibizione è stata l’intima parentesi voce e chitarra che ha riportato ad una dimensione più autentica il concerto.


Manchiamo di poco il live nel cortiletto interno al Castello di Alfio Antico, decidendo di favorire l’elettronica intimista di Niklas Paschburg. Il tedesco, col volo in ritardo, si fa perdonare nel migliore dei modi. Non avevamo ancora avuto il piacere di vedere il Chiostro illuminato dalle atmosfere pre-serali; le luci soffuse premono con dolcezza sulle note di pianoforte e synth del musicista, quasi ad accompagnare le sue dita in quella danza malinconica e sognante che si sposta attraverso l’aria passando per le orecchie e il cuore dei pochi curiosi rimasti. Scappa qualche lacrime di fronte a una musica che ci sembra tanto lontana, ma che si è fatta, secondo dopo secondo, molto, anche troppo, vicina.
Non c’è tempo per un lunghissimo applauso meritato, perché bisogna correre sotto al Castello, dove gli Algiers hanno già iniziato a dare spettacolo. Il loro post punk può risultare essenziale, ma è suonato con energia e cattiveria, condite dalle sfuriate al basso di Ryan Mahan, che ci riporta alla mente quella lucidità folle degli At the Drive in. Il caos della loro furia viene sorvolato dal soul di Fisher.  E’ una follia atroce e bellissima quella degli Algiers, caldissima nei suoni, mentre batteria e basso ci prendono letteralmente a schiaffi. Il loro “Dystopian Sou”l, come è stato definito, risulta essere una mossa vincente, che rende la band americana accattivante, sperimentale, ma comunque accessibile nella sua intenzione. In poche parole: artisti veri.


Ma ecco che arrivano gli headliner del giorno, The Radio Dept. La band svedese porta per la prima volta in Sicilia il suo dream pop, un live atteso da molti che ripaga le aspettative. Si rimane meravigliati dal fantastico suono delle loro chitarre, nonostante non sia perfetta, forse, la scelta di integrarle a basi campionate a drum machine fin troppo semplici. Nel complesso, tuttavia, l’apprezzamento del pubblico è enorme e questa splendida quiete dopo la tempesta Algiers ci culla e ci emoziona, ci fa abbracciare e amare e dà, finalmente, quel tocco di magia sotto le stelle che attendevamo da un giorno e mezzo.
Ypsig, però, è capace di cose incredibili, e veniamo catapultati,  con grande gioia, nuovamente a ballare. Sale sul palco Youngr, giovanissimo producer inglese, che decide che bisogna divertirsi e, fidatevi, non si può dire di no a un polistrumentista che suona da solo. Tutte le canzoni partono con delle basi, ma il live è comunque tale per via di tutti i loop che Youngr genera sul momento, tra chitarra, basso e tastiere, per poi lanciarsi sulla batteria e dare spettacolo. Le sue canzoni sono un misto di pop e disco che rende impossibile stare fermi, balliamo rapiti, incontrollati, dalla sua voce e dalla sua musica. E’ una grandissima festa, a cui siamo stati tutti invitati ed è difficile capire se provino più gioia i ragazzi che si muovono sotto palco o lo stesso musicista, che con quel sorriso perennemente stampato in faccia sembra voler suonare tutta la notte.

Chiudono in maniera sublime la serata i Vessels. La band inglese da anni ha definitivamente improntato un live di elettronica virata alla techno, senza però mai dimenticare le proprie origini post rock. Comincia quindi questo immenso rave party dove i bassi comandano indiscussi e la batteria, elaborata e meccanica, dimostra quanto, anche nell’elettronica, sia fondamentale il dinamismo di uno strumento suonato “live”. Il concerto è un enorme suite cangiante, con crescendo infiniti tipici della scuola post rock che sfociano nel più pesante e coinvolgente dei drop.
Vorremmo non smettessero mai, sono due giorni che a Castelbuono si balla, ci si muove quasi per inerzia, stessa inerzia che impedisce, fisicamente, di toglierci  l’enorme sorriso stampato sulla faccia.

Al terzo giorno veniamo benedetti da mamma Africa con il live di Seun Kuti, figlio di Fela Kuti che tiene onore al nome del padre continuando a far musica con la sua storica band, gli Egypt 80. E’ un momento di totale estraniazione dal festival, che spezza l’ondata di musica dance o chitarre rock. L’afrobeat è coinvolgente, danzereccio, barocco, gioioso, in contrasto con i numerosi testi a sfondo polito e sociale di Kuti. Fa strano trovarsi a ballare allegramente, mentre sentiamo parole dure sul contesto socio-politico africano, ma l’esibizione è un successo clamoroso, scenicamente perfetta, un inno alla gioia ritrovata e all’unione dei popoli.
Il terzo giorno, infine, ci vennero finalmente donate le chitarre, e tutti videro che era cosa buona e giusta, perché è bello ballare, ma si sentiva davvero il bisogno di band potenti. Sul palco salgono cinque ragazzi inglesi, che si fanno chiamare Shame, che tradotto significa “vergogna”, un modo di essere quanto mai lontano dalla loro attitudine sfrontata. La band è giovanissima e al primo vero debutto discografico, ma sul palco sembrano trovarsi a loro agio. Sono frenetici, saltano, urlano, si sfogano su un post-punk di certo non innovativo, ma di pancia e ben arrangiato. Eddie Green è il prototipo ideale del frontman, spaccone senza mai risultare fastidioso, trascina un intero festival al pogo e si lancia più volte sul pubblico, mentre urla a più non posso con quella voce bassa e potente che ci ricorda i più bei interpreti del genere. L’esibizione è un successo, i giovani sono già maturi e alla fine, tutti sudati, non possiamo che applaudire quella che, speriamo, diventi una grande band negli anni a venire. In fondo anche gli Alt J ne sanno qualcosa, Ypsig porta bene ai giovani.

Se da un lato le nuove leve ci fanno sognare e saltare a più non posso, non si può dire lo stesso dei And so You Will Now Us By the Trail of Dead. Un miscuglio poco convincente di indie rock, riff metal, passaggi hardcore. Un concerto che salta all’occhio solo per l’immensa bravura del batterista di James Miller, ma che risulta, nella sua totalità, quasi fastidioso. Sembra quasi che la band americana voglia metterci davvero tutto nella propria proposta musicale, risultando sfocata. Evitabile.
Fa riflettere il contrasto tra  una band con nove dischi all’attivo rimasta impantanata in un genere dei primi anni duemila che non riesce a rivelarsi incisiva quanto un pugno di ragazzi che suona un genere nato quasi mezzo secolo fa.


Non fatichiamo a dimenticare in fretta la band americana e ci prepariamo al grande evento dell’edizione di quest’anno: i Jesus and Mary Chain. Stiamo parlando di una delle più influenti e importanti band del filone proto-shoegaze, non a caso la piazza è gremita e l’attesa è palpitante.
Il concerto è un continuo crescendo: gli scozzesi partono quasi in sordina, scaldano per bene il pubblico (forse anche per troppo tempo), ma poi iniziano davvero a fare quello che li ha resi dei pilastri.

I volumi sono vergognosamente alti e la cosa non può che renderci felice. Finalmente abbiamo di fronte una vera chitarra, che stride, punge, morde e accarezza, quando necessario.

Certo, l’età si fa sentire e il live scenicamente è molto statico, ma la cosa non sembra pesare affatto e, che siano sdraiati in cima alle scalinate o sotto palco, tutti i presenti sono rapiti ed estasiati dai suoni e dalle storiche canzoni che hanno segnato intere generazioni di ascoltatori e musicisti, specie quando parte Just Like Honey, forse il brano più iconico della band. E’ un successo clamoroso, che ha chiamato all’appello persone da tutta Italia, scrivendo una di quelle pagine che arricchiscono ancora di più il già enorme curriculum di Ypsigrock.

Tralasciando i Jesus & Mary Chain, la vera sorpresa di questa edizione è stata constatare che a primeggiare, per resa musicale e per presenza scenica, sono state tutte le band emergenti e dai nomi meno altisonanti del cartellone. Siamo rimasti delusi o comunque non meravigliati dai nomi più “grossi”, artisti che da più di quindici anni suonano su palchi di tutto il mondo, ma abbiamo ballato, pianto e pogato con una schiera di giovani di cui abbiamo motivo di credere che ne sentiremo parlare, e anche tanto, nei prossimi anni. 

Ypsigrock si conferma come sempre una perla per gli appassionati di musica in Italia e una preziosa finestra sul futuro della musica. L’atmosfera che si vive è indescrivibile e non si smorza mai dopo anni e anni. E’ stupendo ritrovarsi tra musicisti, appassionati di musica e addetti ai lavori, in questo piccolo universo parallelo, anche se solo per pochi giorni.
Lasciamo Castelbuono, come sempre, con molta nostalgia, un piccolo tempio sacro sulle montagne che per tre giorni si trasforma e, inevitabilmente, ci trasforma.