Alla davidepaludetto artecontemporanea la personale di Paolo Grassino “Guerra è sempre”, una serie “a sottrazione” che ci immerge nella riflessione sugli esiti della guerra e su ciò che rimane.
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_di Miriam Corona
Paolo Grassino, con Guerra è sempre, in mostra alla davidepaludetto|artecontemporanea, ci pone in una posizione privilegiata. Da un lato ci costringe ad una presa di coscienza della guerra e delle sue dinamiche, tuttavia restiamo nella condizione protetta chi la guerra non l’ha fatta – mandante o vittima che sia. Ciò che abbiamo però è la consapevolezza che nelle guerre tutto cambia per sempre: la vita diventa altro. Le case, i paesaggi, le strade, i letti, le persone, l’acqua che beviamo. La guerra è democratica: non guarda in faccia nessuno quando si tratta di distruzione, quando è elevata a sistema. Grassino guarda al post-guerra, ciò che resta dopo. E quello che rimane è un mondo svuotato.
Egli ne coglie l’aspetto materiale, macerie e rovine di quello che è stato e ora non è più: un’analisi lucida, pragmatica e matematica. I quattro lavori esposti sono la traduzione materiale della mancanza; nella prima sala, un muro di cemento posto quasi a mo’ di scenografia ricorda una nave che naufraga. Sulle pareti, due gruppi dei cosiddetti chair-ing, composizioni ricavate dal riassemblamento di sedie e pezzi di bicicletta, rivestite da materiale nero sintetico. Il risultato pare un ossimoro: braccia pungenti che tendono in tutte le direzioni, nodulari e minacciose, eppure ricoperte di un materiale dall’aspetto gommoso, torto più volte lungo la loro lunghezza, che stimola il desiderio tattile. “Le sedie rappresentano un modo di pettinare la violenza, un modo per ridare ordine alle cose”.
Nella sala centrale, sul pavimento, lapidi di cemento unite a formare un calendario mortuario, sul quale sono incisi paesi e numeri di vittime. Costretti a prenderne atto tramite la quantità numerica espressa e la sovrapposizione dei blocchi (letteralmente seppelliti l’uno sopra l’altro), apprendiamo ciò che resta dell’atto della distruzione: non ci è dato sapere la motivazione perché, in fondo, sappiamo che è sempre tutto e nulla, decisa da tutti e nessuno. Possiamo solo conoscere gli esiti dell’atto della guerra, in un intrinseco meccanismo che alla fine risulta quasi elementare: si tratta di chi resta e chi no. Bisogna passare più volte di fronte all’opera per passare dalla prima sala all’ultima, presenza costante, nella quale è presente un muro di cemento analogo al primo, che segna una skyline in prospettiva di un paesaggio bombardato. Anche qui, nuovamente, profondi buchi e solchi che disegnano quel non-luogo, che delineano ciò che resta solo se lo si vede da una certa distanza: da vicino, voragini indistinte.
“L’arte non è catarsi, non è una cura, ma un sistema per poter porre delle domande e attendere delle risposte”
Paolo Grassino
Ed è quello che dobbiamo fare, lavati dell’indifferenza: interrogarci su quali sono le cose che non vediamo, quali lo saranno, di quali ci ricorderemo; se scorderemo, almeno per poco, le insulse cerimonie celebrative e patriottiche; se la guerra sarò davvero “sempre” e se riusciremo a sfuggirvi; se riusciremo a non sentirci in colpa; se svanirà tutto nel nulla, o se riusciremo a superarlo e a ricostruire sulle macerie, malgrado tutto.